domenica 22 luglio 2018 - Fabio Della Pergola

Israele e la nuova basic law

Alla fine, dopo molte critiche (anche del Presidente Rivlin e di esponenti degli stessi partiti di destra come Benny Begin, figlio dell’ex primo ministro israeliano e deputato del Likud) e altrettanti ritocchi, la basic law (la legge fondamentale, una sorta di costituzione all'inglese) dello Stato di Israele è stata approvata con una maggioranza molto risicata (62 a favore, 55 contrari e 2 astenuti) alla Knesset, il parlamento di Gerusalemme.

Il testo finale sostanzialmente ribadisce quanto già contenuto della Dichiarazione di Indipendenza del 1948: dello Stato sono sanciti bandiera, simbolo e inno nazionali, calendario ufficiale e festività e Israele è definita «la storica patria nazionale del popolo ebraico in cui adempie il suo diritto naturale, culturale, religioso e storico all'autodeterminazione».

Autodeterminazione che è riservata in via esclusiva al solo popolo ebraico (in sintesi la minoranza araba non potrà mai accampare il diritto di creare uno stato arabo all’interno di Israele potendo ambire al più al ruolo di minoranza etnico-linguistica all'interno di uno stato che ne garantisca i diritti civili e politici).

Tutte cose che già fanno parte della storia del paese fin dalla sua fondazione. Se si limitasse a questo non si capirebbe la ragion d’essere di questa dibattuta nuova legge in quanto “doppione” di quella che è già considerata da settant’anni la Legge fondamentale dello Stato.

Le uniche stantìe critiche verrebbero come sempre da chi trova scandaloso che uno stato si possa definire "ebraico", ma che non ha e non ha mai sollevato alcuna obiezione a che altri stati possano ufficialmente definirsi "arabi" o "islamici". Critiche faziose, petulanti e ampiamente irrilevanti che non tengono conto della storia del popolo ebraico (almeno) dell'ultimo secolo.

La legge evidentemente non era un doppione nelle intenzioni del governo - nazionalista e confessionale in pari misura - di Benjamin Netanyahu, come si affannano ora a sostenere i sostenitori della legge minimizzandone la portata, ma dopo le (robuste) modifiche apportate lo è quasi diventato. Quasi.

Salvo qualche punto che sembra invece essere dirimente.

Il primo riguarda lo status di Gerusalemme definita capitale “completa e unita” di Israele che così formulata supera la già contestata definizione data dal presidente USA Donald Trump a dicembre dell’anno scorso.

Trump si era limitato a riconoscere la città come capitale di Israele prendendo atto di uno stato di fatto esistente dal 1967 e già ampiamente riconosciuto da tutti i presidenti americani da allora anche se il trasferimento dell'ambasciata USA in città era stato sospeso .

Trump ha omesso di proposito qualsiasi riferimento all'indivisibilità di Gerusalemme e sostenuto anzi, a chiare lettere, proprio il contrario rimandando la decisione sul limite alla sovranità israeliana alla trattativa fra le parti:

«The United States continues to take no position on any final status issues. The specific boundaries of Israeli sovereignty in Jerusalem are subject to final status negotiations between the parties. The United States is not taking a position on boundaries or borders» (dalla Proclamazione presidenziale 9683 del 6 Dicembre 2017)

Come ho già avuto modo di notare la destra israeliana e filoisraeliana si era affannata ad aggiungere, nei suoi commenti al discorso presidenziale, la fantasiosa definizione di “indivisibile” attribuita allo status della capitale, manipolando apertamente il senso del discorso di Trump. Quantomeno del discorso ufficiale; sulle intenzionalità latenti non sapremmo dire.

Con la legge approvata alla Knesset la città diventa invece formalmente indivisibile e risolve così, a modo suo, la “questione” che ha attraversato tutta la storia del conflitto arabo-israeliano fin dagli inizi.

Non che ci fossero ormai molte speranze che la cosa potesse andare diversamente come sintetizza efficacemente Ugo Tramballi - un giornalista normalmente non tenero con Israele - in un suo recente articolo: «E’ impensabile che si possa fare una pace per la Palestina senza la Palestina. Ma questo rischia di essere il folle prezzo di 30 anni di niet. Il no a Camp David nel 2000, alla proposta molto allettante Olmert-Livni nel 2008, alla “comprehensive vision” di John Kerry nel 2016, in nome di un “tutto e subito” che ha portato a un trentennio di nulla, sono una delle cause della tragedia e del fallimento palestinesi».

Trent’anni di niet palestinesi hanno portato al fallimento, scrive Tramballi, non alla sconfitta. Le parole usate contano e hanno un significato soprattutto se non vengono da una fonte dichiaratamente filoisraeliana, anche se in questo caso sarebbe più corretto parlare di fallimento delle politiche palestinesi e anche di sconfitta sul piano del confronto muscolare.

Contemporaneamente - è il secondo punto critico della nuova legge - la lingua araba, per settant’anni lingua ufficiale dello Stato al pari dell’ebraico, viene declassata e attribuita ad un misterioso “statuto speciale” che non si sa che cosa voglia dire, né che conseguenze possa avere per la cultura arabo-israeliana.

Una scelta che rappresenta comunque un brutto segno di suprematismo, intolleranza e protervia da parte di un paese che, nella sua Dichiarazione di Indipendenza può leggere ancora: « Lo Stato d’Israele (…) assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso, garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura…».

Uguaglianza che, grosso modo, è stata garantita fino a oggi se solo si pensa che perfino nella Corte Suprema c’è un giudice arabo. Difficile trovare specularmente un ebreo alle massime cariche di uno stato arabo (anzi, è difficile trovare un ebreo tout-court in molti paesi arabi).

Infine il terzo punto. Il punto saliente (a mio parere) di tutta la legge, che riguarda l’“insediamento ebraico” con una frase che è un capolavoro di ambiguità: «The state views the development of Jewish settlement as a national value and will act to encourage and promote its establishment and consolidation».

Lo stato considera lo sviluppo dell’insediamento ebraico (al singolare nella versione inglese) come un valore nazionale e agirà per incoraggiare e promuovere la sua istituzione e consolidamento.

Letto così sembra un rinnovato appello agli ebrei della diaspora perché sviluppino l’insediamento ebraico in Israele trasferendosi dai paesi d’origine, secondo la logica del primo sionismo. Il che equivarrebbe al grado zero di novità, visto che Israele è nato per questo e con queste finalità: dare una patria agli ebrei dispersi nel mondo sottraendoli dapprima alle violenze dell'antisemitismo europeo e poi dai rischi di quello islamista o dall'assimilazione.

Questa interpretazione è palese nel sottotitolo de Il Giornale (che aggiunge appunto “in Israele” fra parentesi chiarendo la sua interpretazione del testo) ma che già usa il plurale: insediamenti ebraici. Definizione che rimanda semanticamente alle colonie nella West Bank, non più al territorio metropolitano di Israele.

Ma è, appunto, un’interpretazione. Diversa e nello stesso tempo simile alle altre letture che vengono date dello stesso testo da altre fonti.

Come quella dello storico negoziatore palestinese Saeb Erekat, sull’Huffington Post né, quella particolarmente polemica di Gideon Levy ripresa da Internazionale.

In entrambi i casi si parla di disvelamento della presunta realtà razzista del sionismo (secondo la vulgata classica dell’antisionismo di sempre) e insieme della realtà nuda e cruda di Israele come stato etnicamente (e per ciò non democraticamente) determinato.

Argomentazioni sulle quali è legittimo essere in disaccordo (per quanto riguarda lo status dei cittadini arabo-israeliani) e solo parzialmente d’accordo, se si pensa alla situazione della West Bank - con ampie zone palestinesi sottoposte alla legge militare contrariamente ai residenti ebrei sottoposti alla legge civile - per la quale va comunque tenuto presente lo stato di conflitto permanente di cui Israele non è di sicuro l'unico responsabile (se non in fantasiose narrazioni di parte filopalestinese).

Ancora più decisa l’intervista a Zeev Sternhell per il Manifesto che in un occhiello sintetizza «Affermando che il territorio che va dal Mediterraneo al Giordano, appartiene solo agli ebrei, la destra ha messo fine all’idea che possa nascere uno Stato palestinese indipendente».

Nessuna frase del genere è espressa dalla legge approvata che si può leggere per intero qui.

Ciò che solleva pareri così discordanti e così accesi è però proprio l’ambiguità del paragrafo 7 relativa al già citato "insediamento ebraico".

Non ci sarebbe stata occasione di polemica se fosse stato definito in “quale territorio” esso è considerato un valore nazionale da sviluppare e consolidare (all’interno del territorio nazionale israeliano internazionalmente riconosciuto o, al contrario, anche all’interno dei territori contestati in mancanza di una linea di confine concordata).

Ma proprio il fatto che la frase sia stata lasciata in una discutibile ambiguità - nonostante la rilevanza del tema toccato - è di per sé molto significativa.

La nuova basic law sembra confezionata in modo appositamente equivoco per legittimare incremento e consolidamento - ora "costituzionalmente" garantiti - degli insediamenti nella West Bank (comunque la si voglia chiamare). Aprendo la prospettiva di una possibile annessione de facto (non concordata con la controparte palestinese) degli insediamenti ebraici al di là della linea verde, in violazione del diritto internazionale e della prospettiva ormai residuale della soluzione a due stati.

Una decisione a dir poco pericolosa dell’attuale leadership israeliana che porterebbe il paese - qualora si verificasse l’ipotesi peggiore - verso la creazione di veri e propri bantustan palestinesi senza futuro - non più uno stato contingente dovuto a motivi di sicurezza, ma un vero e proprio status finale e irreversibile - oppure ad un unico stato, dal Giordano al Mediterraneo (come sintetizza il Manifesto) per due popoli numericamente equivalenti, ma con diritti civili, sociali e politici riservati esclusivamente ad uno solo di loro.

Dando alla fine paradossalmente ragione a chi ha predicato - fino a oggi a torto - che Israele pratichi l’apartheid perché quella è l'essenza del sionismo.

Non a caso la sinistra israeliana (ma anche qualche esponente della destra), così come l'American Jewish Committee, espressione dell'ebraismo americano tradizionalmente democratico, così come gli ambienti di sinistra dell'ebraismo della diaspora sono fortemente contrari alla legge e alla deriva nazionalista e confessionale dello Stato.

Deriva purtroppo in linea con quello che sta succedendo in buona parte del mondo.



2 réactions


  • Persio Flacco (---.---.---.138) 1 agosto 2018 09:21
    Sgombriamo subito il campo da un possibile pretesto per strillare all’antisemitismo: "Sei contro l’autodeterminazione del popolo ebraico, dunque sei antisemita e complice dei genocidi nazisti!". Israele è uno Stato sovrano e ha tutto il diritto di darsi la legge fondamentale che preferisce. Togliamo di mezzo anche il pretesto di strillare alla faziosità filopalestinese: "Sostieni chi vuole distruggere Israele, dunque sei antisemita ecc. ecc.". Qui non ci interessano i diritti umani degli arabi palestinesi, non li consideriamo proprio. Aggiungiamo anche che questa nuova legge fondamentale rappresenta una novità solo per il fatto che rende esplicito ciò che prima non lo era, tanto che le obiezioni di Rivlin e Begin non riguardano la sua sostanza quanto l’opportunità di codificare e rendere pubblicamente palese una legge che prima era scritta nei fatti ma che, non essendo scritta sulla carta, lasciava spazio alla "interpretazione" difensiva, offrendo quindi la possibilità di limitare lo scandalo della comunità internazionale. Evidentemente la Knesset ritiene che ormai non ci sia più bisogno di mascherare certi orientamenti: gli USA di Trump hanno finalmente lasciato cadere l’opposizione formale a certe pratiche israeliane e a certe dichiarazioni di principio implicite.
    Ciò che rimane è ciò che tutti (ma non i sedicenti sostenitori di Israele) sapevano: Israele ha imboccato una strada che al posto della ricerca di integrazione tra i popoli della regione e di condivisione dei principi e delle norme del diritto internazionale come garanzia del proprio futuro, si affida alla potenza politico militare per imporre la sua presenza al mondo.
    Non sto a dilungarmi su ciò che questo implica in termini di futuri conflitti e di trasformazione dei valori e dei principi che plasmano la società israeliana. Trasformazione già in atto da tempo ma destinata a diventare sempre più marcata ed evidente in futuro.
    Ancora una volta, amaramente, devo constatare che ai sedicenti sostenitori di Israele sembra non interessare un fico secco del suo futuro.

  • Fabio Della Pergola Fabio Della Pergola (---.---.---.204) 1 agosto 2018 09:44
    Ecco, bravo, non si dilunghi.


Lasciare un commento