sabato 18 gennaio 2020 - Enrico Campofreda

Iran, il sermone della Guida Suprema

La Guida Suprema Ali Khamenei è intervenuta oggi a “guidare” la preghiera del venerdì a Teheran. Non accadeva dal 2012. L’epoca in cui il suo legame col partito dei Pasdaran, aveva liquidato Ahmadinejad e la fazione dei basij che cercava di emarginare il peso del clero. I Pasdaran, che pure pensavano di riportare gli ayatollah fuori dalle decisioni politiche nazionali, scelsero di proseguire il connubio che viaggia nel tempo e rappresenta il fulcro del blocco conservatore dominate. Stamane migliaia di fedeli sciiti e delle Istituzioni della Repubblica Islamica hanno ascoltato le parole dell’uomo che da molto più di Khomeini dirige la politica iraniana. Investito del ruolo dal Ruhollah, il quale nel 1989 prima di morire promosse l’allora cinquantenne Khamenei alla massima carica di controllo del Paese, carica introdotta col discusso velayat-e faqih (il cosiddetto governo del giureconsulto). Non sarebbe toccato a lui quell’incarico, poiché era un semplice hojatoleslam (un religioso di medio rango). Il delfino designato era Ali Montazeri un mari’a-e taqlid, nello sciismo un titolo che spetta a pochi ayatollah, detti appunto “fonte d’imitazione”. Però per Khomeini il compagno di studi e di lotta Montazeri non doveva essere imitato in quelle critiche lanciategli addosso per la prosecuzione della guerra con l’Iraq e per la severità con cui venivano comminate pene capitali. Dunque, via l’uno, dentro il conservatore Khamenei, che poi condivise il potere nel Paese col solido Rafsanjani, esponente della fazione prammatica.

Rafsanjani ebbe due mandati presidenziali, fino al 1997, con cui introdusse importanti passi di liberismo economico, di cui chierici fondamentalisti non volevano sentir parlare. Intanto Khamenei imponeva la sua lunga mano su vitali organismi della Repubblica Islamica: il Consiglio dei Guardiani, che ammette i candidati alle elezioni; e l’Assemblea degli Esperti, che designa la Guida Suprema e può esautorarla. Da trent’anni Khamenei è l’ombra presente in ogni apparato iraniano. Legandosi a strutture diventate potentissime, come quella della forza dei Pasdaran, che collocano i propri uomini ai vertici delle Forze Armate, della politica, dell’economia. Controllare chi può essere ammesso alle elezioni è l’anticamera per avere nel Majlis (il Parlamento) deputati favorevoli alle decisioni da prendere. Guidare le bonyad (le fondazioni, le più note sono: Mostazafan Foundation e Relief Committee) vuol dire avere nelle proprie mani l’economia nazionale. Un’economia densa di contraddizioni, di cui gli embarghi di Obama e di Trump dovuti al nucleare sono solo un aspetto. L’altro è legato all’uscita dalla posizione di dipendenza dalle formidabili risorse energetiche, questione che prima il decennio di guerra con Saddam, quindi i contrasti interni fra conservatori e riformisti, poi il tema del nucleare e la conflittualità regionale, hanno tenuto a lungo congelata. Khamenei, limitato nei movimenti d’un braccio per un attentato subìto, è da anni dato per pronto alla dipartita. Un’operazione alla prostata nel 2014, in cui gli venne asportato un tumore, lo considerava spacciato. I nemici internazionali e interni diffondono periodicamente voci della sua morte, eppure la Guida Suprema continua a restare al suo posto e dirigere gli assai variegati orientamenti politici.

Nel sermone di stamane il vecchio ayatollah, ma non vecchissimo visto che fra i tradizionalisti si contano ultranovantenni, ha riportato l’attenzione sull’attacco ricevuto con l’assassinio del generale Soleimani. Un’azione criminale che ha indebolito le Guardie della Rivoluzione, da cui è seguito l’amarissimo errore dell’abbattimento dell’aereo ucraino che “fa bruciare i nostri cuori”. Questo afferma l’uomo che decenni di politica hanno mostrato come impassibile e che il mondo ha visto lacrimare davanti alla salma dell’amatissimo comandante pasdaran, uno dei martiri più illustri della patria. Così la folla che assiste alla preghiera-comizio più che pregare maledice il nemico statunitense, quello che da quarant’anni attenta alla libera azione del Paese, e le grida “Morte all’America” risuonano come sfogo e monito. La Guida vuole ricompattare la popolazione pur davanti alle copiose proteste dell’ultimo biennio e alle contestazioni dei giorni scorsi. “Assassini” “dimissioni” hanno urlato in centinaia e migliaia. A essi Khamenei contrappone i due-tre milioni che hanno pianto per Soleimani, lanciando quasi un’improbabile sfida numerica. Non sarà questa a decidere il futuro. Più delle migliaia dei giovani contestatori, pesano le recenti dimissioni delle tre giornaliste, rigorosamente velate come richiedono agenzie e tivù di Stato, ma pentite d’aver retto l’iniziale pantomima del regime sull’incidente. Solo se inizieranno le defezioni dei fedelissimi, la partita fra i fronti pro e contro il sistema potrà mutare gli assetti finora conosciuti.

Enrico Campofreda, 17 gennaio 2020

articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it

 




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