Iran, il blackout dei signori di gas e petrolio
Iran travolto da una crisi energetica che si dice causata dalle sanzioni, che tuttavia non sembrano ostacolare la produzione bellica. Smettere di "regalare" benzina metterebbe a rischio il regime. Da Trump la spallata finale?
In Iran, a causa della scarsità di gas naturale utilizzabile, le autorità hanno avviato blackout programmati. Può sembrare assurdo, nel paese al terzo posto mondiale per riserve accertate di petrolio e al secondo per quelle di gas ma questo è il frutto di anni di sottoinvestimento nella generazione e di scadente manutenzione delle infrastrutture energetiche esistenti.
Il periodo estivo, con l’esplosione dell’uso dei climatizzatori, ha dato il colpo di grazia al sistema, dopo che le autorità hanno deciso la messa al bando dell’utilizzo, in tre centrali elettriche, del mazut, un olio combustibile pesante altamente inquinante. Anche se qualcuno sospetta che in realtà scarseggi anche quello. Ora, con l’arrivo del freddo, il problema torna.
Infrastrutture cadenti
Gli esperti stimano che questo inverno il paese avrà un buco di almeno 260 milioni di metri cubi di gas al giorno. Sono in corso colloqui per importarlo dal Turkmenistan. Secondo un parlamentare della commissione energia del parlamento, il paese avrebbe un deficit di generazione di 20 mila MW.
Si ritiene che le condizioni dell’infrastruttura energetica siano causate dalle sanzioni al suo programma nucleare. Motivo per cui il presidente, Masoud Pezeshkian, sta cercando di riavviare il dialogo con i paesi occidentali, soprattutto con gli Stati Uniti, anche se l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca rende pressoché certo il ritorno di Washington alla strategia di “massima pressione”, già adottata nel 2015 con l’uscita americana dagli accordi sul nucleare, e che potrebbe far scomparire gli 1,5 milioni di barili di greggio al giorno che l’Iran è arrivato a collocare durante l’Amministrazione Biden.
È certamente curioso che un paese così abile nella produzione di armi e droni, di cui rifornisce copiosamente la Russia, lamenti di non riuscire a rinnovare centrali e reti di trasmissione dell’elettricità, ma tant’è.
Come riferisce il Financial Times, la crisi è così grave che il governo è costretto a ricorrere al proprio fondo sovrano per pagare gli stipendi. Di certo, il problema è esacerbato dalla presenza di demenziali sussidi: la benzina costa circa tre centesimi di dollaro al litro alla pompa, per un costo esplicito e implicito stimato dal FMI in 163 miliardi di dollari al 2022, il 27 per cento del Pil.
Il governo si sta muovendo, molto lentamente, con un sistema di tariffe elettriche crescenti per i consumi domestici, e importando benzina a prezzi di mercato internazionale per i consumatori agiati. Secondo stime ufficiali, il paese ha un deficit giornaliero di benzina stimato in circa 20 milioni di litri, e lo scorso anno ha importato benzina per 2 miliardi di dollari. Nel contempo, altri milioni di litri attraversano il confine e prendono la strada dei vicini Pakistan e Afghanistan per opera dei contrabbandieri, che incassano la differenza tra il prezzo domestico sussidiato e quello estero dei compratori.
Con tagli ai sussidi, rischi per il regime
Il problema della rimozione dei sussidi è il rimbalzo violento dell’inflazione, che nell’ambito dei carburanti si propaga come un incendio ai generi di prima necessità. Chiedere agli argentini, per conferma. Ma è certamente colpa del neoliberismo. Nel 2019, quando il governo iraniano tentò di avviare la rimozione di questi folli sussidi per gestire l’impatto delle sanzioni americane, aumentando nottetempo i prezzi in media del 50 per cento, si ritrovò con violenti disordini di piazza.
Per Trump, quindi, l’occasione di dare il colpo di grazia a Tehran e ridisegnare il panorama geopolitico della regione, con l’aiuto di Israele. Ricordiamo che il premier Benjamin Netanyahu si è rivolto direttamente al “popolo persiano” (anche se in Iran le minoranze etniche sono circa il 40 per cento della popolazione) promettendo un’era di amicizia e pace tra i due paesi, che suona per quello che è: un regime change.