lunedì 18 febbraio 2013 - Riccardo Noury - Amnesty International

India, il ritorno della pena di morte

 

L’impiccagione, il 9 febbraio, di Afzal Guru, un militante del gruppo Jaish-e-Muhamad responsabile dell’attacco suicida contro il parlamento del 13 dicembre 2001, ha riaperto prepotentemente il dibattito sulla pena di morte in India.

Si è trattato della seconda esecuzione dallo scorso novembre, dopo otto anni di moratoria.

Un fatto preoccupante, non solo in sé, ma anche per l’influenza che l’India può avere sulle decisioni di altri paesi in tema di pena di morte. Preoccupa ancora di più il fatto che, in occasione delle due impiccagioni, le autorità indiane abbiano rifiutato di rendere note sia la data d’esecuzione che le informazioni sui motivi che avevano portato a respingere le domande di grazia. In uno dei due casi, la famiglia ha appreso dell’esecuzione solo dopo che era avvenuta.

La stampa indiana dibatte, prende posizione (spesso in modo critico), le organizzazioni per i diritti umani protestano, l’opinione pubblica si divide.

Se le esecuzioni sono per il momento rare, non altrettanto sono le condanne a morte: una recente ricerca ha rivelato che dal 2001 al 2011 ne sono state emesse 1455, in media una ogni tre giorni. Nello stesso periodo, ne sono state commutate 4321 (il dato è più elevato perché tiene conto di sentenze inflitte negli anni precedenti alla rilevazione).

Dopo l’esecuzione di Afzal Guru, Suhas Chakma, autore della ricerca e coordinatore della Campagna nazionale per l’abolizione della pena di morte in India, ha dichiarato: “L’India è la terra di Valmiki, di Buddha, di Gandhi. Per questo, deve seguire i suoi valori di civiltà e prendere provvedimenti per aggiungersi a quei paesi che hanno abbandonato il sistema della giustizia retributiva e hanno abolito la pena di morte”.

Parole nobili. Ma c’è chi non la pensa così.

Sono state proprio le proteste di piazza, seguite alla violenza di gruppo e al brutale omicidio di una ragazza di 23 anni, avvenuto lo scorso dicembre a Nuova Delhi, a spingere il governo a prevedere la pena di morte per il reato di stupro nel decreto approvato il 3 febbraio.

Una decisione ipocrita e opportunista, per tacitare la folla in tumulto e convincerla che si farà sul serio, inserita in un decreto insoddisfacente da molti punti di vista: non migliora le procedure per assicurare alla giustizia gli stupratori, rendere più facili le denunce ed efficaci le indagini; non riconosce se non in minima parte lo stupro coniugale; mantiene l’impunità per agenti di polizia e soldati sospettati di violenza sessuale. Le autorità indiane pensano veramente di tutelare le donne dallo stupro lasciando ogni tanto un corpo a penzolare?

Intanto, come sempre succede quando s’interrompe un periodo di moratoria delle esecuzioni, vi è il concreto rischio di assistere a molte altre. Quattro prigionieri, dopo che la loro domanda di grazia è stata respinta dal presidente Pranab Mikherjee, potrebbero essere i prossimi a finire impiccati.




Lasciare un commento