venerdì 15 marzo - Enrico Campofreda

India-Bharat, la società della discriminazione

In attesa delle consultazioni politiche di fine aprile - una ciclopica scadenza con più di novecento milioni di potenziale elettori - l’India del Bharatiya Janata Party rende attuativo il ‘Citizenship Amendment Act’, legge contestatissima approvata nel 2019 e finora non applicata.

 Ufficialmente per il subbuglio della pandemia di Covid-19, sebbene in mezzo ci siano state le dure manifestazioni dei contadini che hanno assediato Delhi e altre grandi città e i contrasti sempre più violenti fra la maggioranza hindu e le minoranze religiose, soprattutto quelle islamica e cristiana. Che pur minoranze contano rispettivamente circa duecento e sessantacinque milioni di fedeli. Questa parte della popolazione indiana ha visto bruciati i luoghi di culto, le proprie abitazioni private, gli esercizi commerciali per mano dei fanatici hindu che aumentano di numero e di violenza. L’hindutva, la teoria razzista e fascista creata da Vinayak Savarkar negli anni Venti del secolo scorso, è diventata orientamento per numerosi deputati arancioni che siedono nella Lok Sabha e indirizzano ampi settori del partito di governo. Con la legge diventata esecutiva in questa settimana cittadini in fuga da nazioni attigue (Pakistan, Afghanistan, Bangladesh) possono ricevere lo status di rifugiato purché non professino la fede musulmana. Perciò parsi, sikh, buddisti, giainisti finanche cristiani (al di là di scoprire che possono finire perseguitati) vengono accolti. I musulmani no. La discriminazione ha creato in questi anni proteste diffuse nei vari stati della federazione indiana e anche all’estero, fra gli emigrati dall’India di religione islamica e fra i fratelli islamici di altre nazioni. Motivo: la palese illegalità della norma in contrasto con quanto prevede l’articolo 14 della Costituzione: “Lo Stato non deve negare a qualsiasi persona l'uguaglianza davanti alla legge o la parità di protezione delle leggi all'interno del territorio dell'India". Però Modi e i suoi vanno avanti a testa bassa. Dopo la conferma con un terzo mandato, il loro prossimo obiettivo è modificare la Costituzione. Un vizio diffuso fra i leader che amano l’autoritarismo e desiderano una Carta conforme alle proprie insane voglie.

Finora il lasso temporale per diventare cittadini indiani è di undici anni, regola che potrebbe essere confermata o mutata. Sicuramente nessuno straniero islamico può sperare in quest’inserimento. Secondo il ministero dell’Interno “Negli ultimi tempi sono state diffuse molte idee insane”. Il richiamo non è alla legge in questione, bensì a chi la contesta. Hanno voglia le organizzazioni umanitarie a gridare contro le forme restrittive sostenute dal Bjp, il rullo compressore dello Stato dispotico introdotto da un decennio da Modi va avanti senza interruzioni. La repressione interna, compresa quella della stampa, non viene denunciata dall’informazione main stream internazionale, lanciata anche giustamente contro le elezioni farsa in Russia di questi giorni. Ma, ad esempio, in fatto di filtri e blocchi non sono l’Iran né la Cina ad avere il primato nell’impedire alla cittadinanza l’accesso a Internet: le recenti statistiche pongono in testa l’India. Ovviamente l’India di Modi che non è certo più quella di Nehru. Se si guarda all’intolleranza religiosa, gli assalti incendiari alle chiese cristiane, messi in atto da estremisti hindu in alcuni Stati come il Manipur e dimenticati dalle forze dell’ordine, sono paragonabili a quelli di Boko Haram in Nigeria o di certo fondamentalismo dell’Isis. E un campione assoluto di aggressività e intolleranza qual è Israele, che abbatte le case dei palestinesi da Gerusalemme a tanti angoli della Cisgiordania, viene preso a modello dalle autorità indiane che si scagliano contro i musulmani cui viene impedito il diritto all’abitazione tramite demolizioni. Il governo Modi fa dell’illegalità assoluta un comportamento ammissibile e non perseguibile per legge, in totale spregio dei diritti civili e umani. Un nuovo codice penale rende possibile tuttociò attribuendo ai cittadini il reato di “attacco alla sovranità e integrità dell’India“ anzi del Bharat, come il partito hindu vuol tornare a denominare il Paese, contro un termine considerato retaggio coloniale. L’intento né linguistico né storico-culturale maschera ben altra smania: limitare la libertà a chi non risulta in linea coi parametri che vogliono lo Stato-continente una società degli hindu per gli hindu.

Enrico Campofreda




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