venerdì 10 agosto 2018 - Daniel Monni

Il rito abbreviato e l’ergastolo: odi et amo

“Escono dagli uffici, dopo la loro giornata di lavoro, guardano le case e le piazze con un’aria soddisfatta, pensano che è la loro citta, una bella città borghese. Non hanno paura, si sentono a casa loro. […] Son pacifici, un po' melanconici, pensano a Domani, cioè, semplicemente, ad un altro oggi […] Legiferano, scrivono romanzi populisti, si sposano […] e frattanto la grande natura incolta s’è insinuata nella loro città, s’è infiltrata dappertutto, nelle loro case, nei loro uffici, in loro stessi. Non si muove, si mantiene ferma in essi, essi vi stan dentro in pieno, la respirano e non la vedono, credono che sia fuori, a venti miglia dalla città. Io la vedo, questa natura, la vedo…”

-SARTRE J.P., La nausea, Einaudi, Torino, pagina 212-

 

Il rito abbreviato, salutato come la “grossa novità1” del codice Vassalli, persegue il dichiarato intento di “far pervenire al dibattimento soltanto una parte piccola di processi2” attraverso un “semplice” do ut des: processo celere, “allo stato degli atti”, in cambio di uno sconto di pena. Tale rito alternativo, tuttavia, vive da sempre un rapporto altalenante con i delitti puniti con la pena dell’ergastolo: sul perché tra l’abbreviato e l’ergastolo esista un rapporto tanto tormentato quanto l’amore tra Catullo e Lesbia si potrebbe dire che “quare id faciam, fortasse requiris. Nescio3”.

L’art. 442 comma 2 c.p.p., nella propria formulazione originaria, infatti, prevedeva che la pena dell’ergastolo, in cambio della celebrazione dell’abbreviato, sarebbe stata sostituita con la pena della reclusione pari ad anni trenta: tale articolo, tuttavia, venne dichiarato incostituzionale in questa parte con la sentenza 176 del 22 aprile 1991. Il rito abbreviato, a seguito di ciò, in parole poverissime, non poteva essere scelto da chi era imputato per delitti puniti con la pena sine die: così fu sino all’entrata in vigore-nel 2 gennaio 2000-della legge “Carotti”, la quale re-introdusse nel comma II del succitato art. 442 c.p.p. le parole: “alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione degli anni trenta4”. L’art. 7 della l. 341 del 2000, tuttavia, “interpretò autenticamente(?)” l’espressione “pena dell’ergastolo” precisando che dovesse intendersi riferibile unicamente “all’ergastolo senza isolamento diurno” ed aggiunse al comma II dell’art. 442 c.p.p. il periodo: “alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo”. La Corte Costituzionale, purtuttavia, con sentenza n. 210 del 2013, dichiarò l’illegittimità costituzionale di quest’ultimo art. 7 perché costituiva “solo formalmente una norma interpretativa […] [e] in sostanza, con il suo effetto retroattivo, determina[va] la condanna all’ergastolo di imputati ai quali era applicabile il precedente testo dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. e che in base a questo avrebbero dovuto essere condannati alla pena di trenta anni di reclusione5”. Il rapporto tra il rito abbreviato e l’ergastolo, già da tale incompleto excursus, si mostra arzigogolato e degno dell’immagine di legge che forniva Kafka nel suo “processo”: una legge dalla cui porta nessuno può entrare, neppure al culmine di una vita spesa in tal senso6.

Fuor di metafora, sono da sottolineare le proposte di legge del 27 marzo 2018 e del 3 aprile 2018-primi firmatari Molteni e Morani-che, con modifica degli artt. 438 e 442 c.p.p., mirano a rendere inapplicabile, ancora una volta, il giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo. Le motivazioni alla base delle stesse sarebbero, più o meno, le seguenti: “il giudizio abbreviato [è] un procedimento di tipo volontario, […] avente natura premiale. […] L’esperienza processuale di questi anni dimostra come tale giudizio non abbia sortito l’effetto di deflazione che ne aveva favorito l’introduzione nell’ordinamento: oggi si ricorre ad esso quando non vi è alcuno spazio difensivo, ovvero quando si ritiene che il materiale investigativo raccolto dal pubblico ministero possa offrire spazi difensivi maggiori di quelli dibattimentali. […] Se, infatti, consentire la scelta del giudizio abbreviato risulta giustificabile in via generale per motivi legati a esigenze deflative, ciò non sembra accettabile per reati che, in ragione della loro gravità, il codice penale punisce tanto severamente e che creano un grave allarme sociale nell’opinione pubblica. Desta sconcerto l’applicazione, molte volte, di pene notevolmente ridotte rispetto alla pena perpetua inizialmente prevista dal codice penale7”. La legislazione penale, dunque, ancora una volta rinverrebbe la propria linfa vitale nell’allarme sociale e nell’opinione pubblica: ciò nel pieno ossequio in un “certo” diritto penalpopolare.

Il rito abbreviato, pertanto, pur essendo un procedimento a stampo inquisitorio, derogatorio del principio di formazione della prova nel contraddittorio ed in grado di garantire un processo celere viene considerato “eccessivamente premiale” allorquando si giudichino soggetti imputati per delitti che prevedono la pena dell’ergastolo: il sinallagma stato-imputato viene ritenuto sbilanciato a favore del secondo nel momento in cui l’allarme sociale sembra perdere la propria centralità. Le proposte di legge de quo, infatti, sembrano sottendere, quantomeno, due precipitati logici:

-il prius del sistema penale è l’allarme sociale;

-l’allarme sociale giustifica l’ergastolo.

Tali ideologie sottostanti ad un “certo” diritto penale non possono, tuttavia, condividersi, perché una regola processuale non può vivere o morire unicamente sulla base della paura sociale: non è il processo penale lo strumento per rispondere ad un presunto allarme sociale. Sostenere, inoltre, che trent’anni di reclusione siano una pena eccessivamente mite, significa abbandonare completamente la finalità rieducativa della pena, con buona pace dell’art. 27 della Cost.

Nell’eliminazione di una scelta processuale in risposta ad un presunto “allarme sociale” mi pare di trovare, francamente, “l’uso populistico del penale, l’esibizione muscolare di buone intenzioni di tutela repressiva severa8”: tuttavia se questa politica legislativa può attirare consensi, allo stesso tempo, non può placare le paure che l’hanno alimentata. Può, realisticamente, una norma processuale impedire la commissione di quei reati? È la procedura penale lo strumento col quale prevenire la commissione di reati?

Rito abbreviato ed ergastolo sembrano, in sostanza, vivere in un costante rapporto di amore ed odio: lo scambio, il sinallagma che permea la loro convivenza viene, di volta in volta, (ri)visto in chiave più o meno positiva. Ad oggi, tuttavia, il loro legame pare subire il più vasto influsso di una forza “sotterranea”, che “non si muove, si mantiene ferma [nella società] [ed] ess[a] vi sta dentro in pieno, la respira e non la ved[e], cred[e] che sia fuori, a venti miglia dalla città”: questa forza è la paura, l’allarme sociale, che rischia di minare i principi ai quali l’intero ordinamento professa di aderire. “Io la vedo questa natura, la vedo…9”.

Dott. Daniel Monni

1- Seduta del 10 luglio 1984, Camera dei Deputati, Relatore Casini

2- Ibidem

3- CATULLO, Odi et Amo

4- Art. 30, comma 1, lettera a), l. 16 dicembre 1999, n. 479

5- Corte Costituzionale, 18 luglio 2013, n. 210

6- KAFKA F., Davanti alla Legge, in Il Processo, Mondadori, 1986

7- Camera dei Deputati, proposta di legge n. 392 del 27 marzo 2018

8- Come scritto in altro contesto da PULITANO’ D., Intervento, in La Società Punitiva. Populismo, dritto penale simbolico e ruolo del penalista, in Diritto Penale Contemporaneo

9- Cfr. citazione ad introduzione articolo



1 réactions


  • Persio Flacco (---.---.---.123) 12 agosto 2018 14:55
    Intanto dovremmo riconoscere che il Diritto non ha natura divina e che quindi il vezzo di opporlo al popolaccio tradisce una visione piuttosto elitaria, fuori posto in democrazia. La locuzione "In nome del popolo italiano" non è (non dovrebbe essere) una vuota formula retorica bensì un richiamo all’attualità del rapporto dialettico tra Diritto e popolo sovrano. Col secondo nella veste di committente sia del Legislatore che del Giurista, non in quella di petulante disturbatore.
    Quanto al rito abbreviato esso è manifestamente un istituto pensato per porre qualche rimedio alla cronica lentezza della macchina giudiziaria, non l’espressione dell’esigenza di tradurre nel miglior modo possibile i principi del diritto al rito processuale. Un espediente emergenziale dunque, che si è fatto strada nel corpo giuridico non in nome della scienza e della coerenza bensì in nome della necessità di porre un rimedio alle carenze di chi non riesce a dargli piena ed equa attuazione. E, in quanto "espediente", inevitabilmente, se da una parte sana un difetto dall’altra guasta la coerenza complessiva del Diritto. Con questa premessa è ovvio che ogni disputa sul rito abbreviato non può che essere viziata e che, pertanto, non può che muoversi nella stretto spazio tra necessità pratica e coerenza giuridica. Col risultato di essere interminabile e senza esito.
    Riguardo poi all’origine della necessità che giustifica l’esistenza dell’istituto del rito abbreviato: la incapacità della macchina giudiziaria di trattare tutti i reati in base alle medesime norme astratte del Diritto, senza scorciatoie e artifici, mi si dovrebbe spiegare per quale motivo alla parte soccombente è riconosciuto il diritto di chiedere il ricorso al grado successivo di giudizio senza adeguata motivazione. In questo modo dall’imputazione alla sentenza, secondo i tempi indicati dalla statistica e dalle necessità fisiologiche di indagine e dibattimento, passano mediamente 10 anni! Certo che il tempo è troppo lungo e che poi vi è la necessità di agire con espedienti vari sulla prescrizione e di ricorrere ai riti alternativi. Tre gradi di giudizio per chi ha i mezzi per mantenere un collegio difensivo per un tempo tanto lungo, ovviamente. Per chi non li ha basta e avanza il primo grado, così che, di fatto, la Legge non è più uguale per tutti.

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