martedì 17 gennaio 2012 - alfadixit

Il debito pubblico è la nostra questione morale

Non può esistere e tanto meno prosperare un paese senza valori forti e condivisi come onestà, fiducia reciproca, senso dello stato, impegno. L’economia da sola non basta.

Il debito pubblico e la questione morale sono le due facce della stessa medaglia. Il degrado sociale del nostro paese ha cioè intaccato le istituzioni e i singoli cittadini in egual misura provocando il tracollo economico, portando il nostro paese ad avere uno dei maggiori debiti pubblici del mondo industrializzato.

Ogni cittadino, nessuno escluso, ha fin dalla nascita, una quota di circa 31.000 euro derivante dal debito pubblico, un debito contratto in numerosi decenni di finanza per così dire “allegra”, figlia di uno stato generoso che ha distribuito a piene mani sul territorio benefici e prestazioni che forse non erano alla portata del sistema o, in altre parole, ha sostenuto un cospicuo welfare con debiti e cambiali confidando sulla crescita, sull’espansione del paese e del tenore di vita dei propri cittadini.

Ma questo meccanismo oggi si è inceppato principalmente a causa delle mutate dimensioni del villaggio globale che hanno messo alle corde la nostra macchina industriale, un apparato che pur essendo saldamente il secondo in Europa dopo quello tedesco, soffre però molto della concorrenza globalizzata specialmente nell’export.

Una delle ragioni è la ridotta dimensioni delle nostre aziende, troppo piccole e sottocapitalizzate per competere sullo scacchiere internazionale. Pochi capitali, finanziari, umani, organizzativi, significa poca ricerca, poca tecnologia, prodotti e processi poco innovativi, facilmente imitabili e sensibili al prezzo, significa difficoltà distributiva e di marketing. E, dal momento che il nostro costo del lavoro è paragonabile a quello degli paesi europei, ma, per contro, la produttività è sensibilmente più bassa, è obbligatorio delocalizzare per sopravvivere.

Tanto per capirci le ore procapite lavorate negli USA sono in media quasi 2000 all’anno contro circa 1750 in Italia e con un tasso di assenteismo doppio per giunta. Se si considera poi che la formazione delle maestranze da noi è la più bassa di tutta l'Unione europea, si pensi ad esempio che lo scorso anno i nostri lavoratori hanno frequentato corsi di formazione pari solamente a 1/3 delle ore dei tedeschi, 1/4 rispetto ai francesi e addirittura 1/10 rispetto agli inglesi, si può avere un quadro esaustivo della situazione.

D’altro canto delocalizzare prodotti ad alta tecnologia è quasi impossibile, comunque non conveniente, mentre per il classico Made in Italy la convenienza c'è, eccome. Non a caso gli investimenti italiani destinati all’estero sono aumentati del 220% negli ultimi 10 anni contro il 150% della media europea, e questo nonostante incentivi e politiche fiscali a favore delle imprese messe in campo dai vari governi che si sono succeduti, una cifra enorme, stimata attorno ai 30 Mld di euro nel solo 2011.

Lo Stato insomma ha cercato inutilmente di attrarre investitori spaventati dalla burocrazia e dalle tasse, dalla sensazione di malaffare e corruzione, specie al sud, ancora dalla bassa produttività e rigidità del lavoro, come si diceva, accompagnata da un difficile governo delle fabbriche, complice anche un sindacato conflittuale che ha difeso più gli assenteisti che gli onesti. Fiat preferisce costruire le auto negli Usa, in Brasile e Polonia, i camion e gli autobus in Germania e Repubblica Ceca, perché è conveniente. Del resto chi mai potrebbe investire a Termini Imerese dove le condizioni sono più sfavorevoli che in Serbia, giusto per fare un esempio, dove le tasse sugli utili d’impresa sono per giunta maggiori di almeno 4 punti percentuali rispetto alla media europea, se non si mettono sul piatto della bilancia cospicue agevolazioni e sgravi fiscali?

Ma, ironia della sorte, il nostro paese non è neppure fra i primi della classe in quei settori che maggiormente ci contraddistinguono, dove è riconosciuta la nostra leadership insomma. L’alimentare, il lusso, le calzature, i mobili, le macchine utensili, l’abbigliamento, solo per fare qualche esempio, sono infatti appannaggio delle grandi e robuste multinazionali, tutte straniere ovviamente, che dominano i mercati, impongono il gusto e fanno business, “alla facciazza nostra”, come direbbe Totò. Una partita dalla quale siamo sistematicamente esclusi a causa dell’incapacità di fare squadra, a causa alla proverbiale rissosità che ci contraddistingue, veicoli perfetti per la colonizzazione delle nostre eccellenze.

Problemi vecchi, incancreniti e mai risolti per incapacità di dialogo, per l’arroccarsi dietro interessi corporativi e di classe da parte di tutte le categorie sociali, dai politici ai sindacati ai singoli cittadini. Si è preferita in altre parole la “scorciatoia” tutta italiana della svalutazione, ampiamente collaudata ai tempi della lira, ma, finalmente finito il “giochino” con l’avvento dell’euro, nel nostro paese non restano che le macerie. Da un lato stipendi bassissimi per ridurre i costi e dall'altro la cassa integrazione da pagare, ancora a carico dello stato naturalmente, o, in altre parole, del debito pubblico.

D'altro canto le esorbitanti prestazioni del nostro sistema sociale non sono diminuite, anzi, tutte le famiglie italiane ne hanno goduto da decenni e continuano a farlo tanto che i privilegi si sono tramutati in diritti con la conseguenza che il peso del debito è diventato difficile da sostenere, lo stiamo scaricando sulle generazioni future.

Tanto per avere qualche numero il debito è oggi il 120% del PIL, era il 60% nel 1980, il 125% nel 1995 con un minimo relativo del 109% nel 2001 con il governo Prodi. Ci sono certo i costi della politica e della macchina burocratica ma ci sono anche le scuole, per esempio, quasi totalmente pagate dallo stato, che, benché oggi un po’ zoppicanti, hanno comunque sfornato diplomati e laureati che si sono egregiamente inseriti nel mondo lavoro.

Lo stesso dicasi per la sanità, i medicinali, l’assistenza, in gran parte gratuite. Ma, come noto, è il capitolo delle pensioni a farla da padrone. Abbiamo in Italia una schiera infinita di pensionati, milioni di persone a riposo che, se fossero vissuti in qualunque altro paese del mondo, sarebbero ancora al lavoro, e con un bel calcio nel sedere, altro che partita a bocce e pennichella. Tanto per capirci in Italia il tasso di occupazione dei lavoratori di età compresa fra i 55 e i 65 anni è del 38% contro il 63% della Germania, il 75% della Svezia e il 50% della media europea. E come se non bastasse il nostro è pure uno dei sistemi più generosi del pianeta erogando oltre l'80% dell'ultimo salario, percentuale che scende in Francia al 61% e in Germania al 58%. Altro che Babbo Natale.

In pratica un esercito di persone che percepisce molto più di quanto ha versato gravando pesantemente su chi lavora, un privilegio che, come si diceva, viene oltretutto spacciato per un diritto. Tutte situazioni, come si vede, più o meno presenti in qualunque famiglia italiana e che hanno portato le finanze dello stato sull’orlo della bancarotta, nonostante l'aumento infinito delle tasse necessarie a compensare le entrate della mancata crescita che, peraltro, non potrà continuare all'infinito. Siamo senza dubbio un paese per vecchi, abbiamo investito un fiume di denaro nelle pensioni sottraendolo allo sviluppo, al lavoro, alla ricerca, all'aiuto ai giovani e alle donne, alla formazione, alla cultura, alle infrastrutture, alla qualità dei servizi e del paese. Il debito pubblico siamo noi, e se questo vi pare poco.

Eppure l’italiano medio, incline all’autolesionismo, piagnone di natura e senza alcuna autostima, fa fatica ad ammettere le proprie responsabilità, preferisce il vittimismo, fagocitato dal qualunquismo è sempre pronto ad incolpare qualcun altro delle proprie miserie considerando anzi lo stato come una sorta di arpia che vessa il povero cittadino per giustificare in realtà le ruberie dell’evasione fiscale e le frodi del “furbetto del quartierino”.

Eppure nel corso della nostra storia di bufere ne abbiamo viste molte, abbiamo dovuto spazzare grandi cumuli di macerie e lo abbiamo fatto con la forza del sacrificio, dell’entusiasmo, della lealtà, dell’onestà, del lavoro, fino a realizzare il grande paese in cui siamo, risorto proprio sulle macerie della guerra.

A noi tocca però un compito ben più difficile di allora perché adesso le macerie sono dentro, sono le macerie del collante sociale distrutto dall’individualismo sfrenato, dalla mancanza di senso dello stato, dall’illegalità imperante, sono le macerie dei valori fondanti della nostra democrazia squassati dalla propaganda, dalla bassezza morale di cui si è permeata la nostra società, fino al midollo.

Come può una nazione crescere e prosperare se non è una collettività, se prevalgono gli interessi personali a danno degli altri, se si fonda sulle piccole e grandi ruberie quotidiane, se la “res publica” è una terra di nessuno dove non esiste l’idea che “lo stato siamo noi? Chi vive in una discarica non ne sente la puzza, si abitua, e così ci siamo abituati a vivere senza valori, nutrendoci dell’imbecillità dai media, della pubblicità asfissiante, ci siamo abituati a vivere nella società dello spettacolo infestata di pifferai, nani, ballerine e di essa siamo diventati sudditi senza neppure rendercene conto.

E’ questo degrado sociale ad aver causato il tracollo economico, non certo il contrario ed è questa la vera emergenza del nostro tempo, il resto in fondo è solo un’appendice. 

(Claudio Donini)



2 réactions


  • (---.---.---.54) 17 gennaio 2012 12:53

    Condivido quanto scritto. Per avere maggior credito, sarebbe opportuno citare qualche fonte soprattutto quando "si danno i numeri".


  • (---.---.---.180) 17 gennaio 2012 17:33

    Grazie del commento, sono d’accordo, sarebbe stato più corretto citare tutte le fonti dei dati, in maggioranza eurostrat e studi di confindustria.


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