mercoledì 20 luglio 2022 - Osservatorio Globalizzazione

Il Grande Turkestan uzbeko: come il declino russo influenza le sorti dell’Asia centrale

Nelle storia recente, l’Asia centrale è rimasta pressoché marginale rispetto alla grande geopolitica, presentandosi, al massimo, come oggetto del confronto tra potenze.

 La ragione di ciò dipende dall’egomonia incontrastata che la Russia ha tradizionalmente esercitato sulla regione e dalla conseguente “sospensione” dello scorrere della storia. L’inevitabile declino a cui oggi Mosca sembra condannata tuttavia schiude orizzonti inediti e suggerisce che l’egemonia russa in Asia centrale non potrà più essere considerata scontata nel medio-lungo periodo. Aprendo così le porte all’ascesa dell’odierno Uzbekistan, nazione geopoliticamente eletta a realizzare l’antico sogno di un Grande Turkestan compreso tra il mar Caspio e le catene montuose del Pamir e Tian Shan.

Il declino della presa russa in Asia centrale

A partire dal XIX, quando le armate zariste imposero definitivamente il dominio imperiale sui territori centroasiatici, il destino della regione è dipeso essenzialmente dalla volontà russa, la cui presa sull’area si è mantenuta anche in seguito al crollo dell’URSS, come i recenti fatti kazaki stanno a dimostrare. Con lo scopo di perpetuare il proprio dominio su di un territorio chiave per la difesa dei grandi spazi euroasiatici, Mosca, a partire dalla caduta dell’Unione Sovietica, si è impegnata attivamente per la difesa dello status quo, giocando il ruolo di arbitro inaggirabile per la risoluzione delle controversie regionali e, soprattutto, assicurandosi la permanenza al potere di regimi accondiscendenti e possibilmente dipendenti dal supporto economico-securitario offerto dal Cremlino. Tale condizione potrebbe presto venire meno a seguito dell’inesorabile declino cui va oggi incontro la grande potenza russa. L’incombente crisi socio-demografica del Paese euroasiatico, che già da sola sarebbe bastata a ridimensionare le future aspirazioni russe, viene oggi a essere affiancata dalle devastanti conseguenze (future) della guerra in Ucraina. Questa, in primo luogo, costringe Mosca a indirizzare le sue sempre più scarse risorse verso la linea di faglia con la NATO sul proprio fianco occidentale, confronto che, a prescindere dai tempi e dagli esiti del conflitto, è destinato a perdurare nel lungo periodo. In secondo luogo, l’inizio delle ostilità con Stati Uniti e alleati ha dato inizio a una serie imponente di sanzioni economiche che, sebbene nel breve-medio periodo non saranno in grado di intaccare efficacemente le capacità operative dell’esercito russo in Ucraina, sono destinate, nel medio-lungo periodo, a impoverire e far regredire l’economia di un Paese da tempo in grande affanno. L’inevitabile declino socio-demografico ed economico del Paese e la condizione di esasperata sovraestensione imperiale suggeriscono dunque che l’egemonia russa in Asia centrale sia destinata a venir meno nei decenni a venire. Lasciati a sé, gli Stati centroasiatici ex-sovietici perderanno l’elemento stabilizzante che, in tempi recenti, aveva impedito alle forze geopolitiche di plasmare gli equilibri regionali. Dinanzi allo scoppio del caos, essi scopriranno l’impossibilità di contenere un Uzbekistan finalmente libero dal vincolo moscovita.

La primazia regionale dell’Uzbekistan

Comprendere le ragioni della futura ascesa uzbeka significa prima di tutto riconoscere la centralità della nozione disuperiorità relativa nella pratica dell’analisi geopolitica. L’Uzbekistan infatti è lungi dal presentare le caratteristiche anche solo di una media potenza: ciò che garantisce a Tashkent un futuro di successo non sono numeri assoluti, bensì la superiorità naturale del Paese rispetto agli altri Stati turchici della regione.

In primo luogo, elemento decisivo, vi è la superiorità demografica del Paese centroasiatico. La popolazione dell’Uzbekistan — 34 milioni di abitanti — non solo è di molto superiore a quella di tutti gli altri Paesi presi singolarmente, ma, addirittura, è vicina a quella di questi presi assieme, senza nemmeno contare il fatto che in molti di essi sono presenti importanti minoranze uzbeke. La popolazione uzbeka inoltre, oltre che numerosa, è molto giovane, come dimostra la piramide demografica del Paese, il che rappresenta tanto una garanzia di crescita economica futura quanto un potenziale militare soverchiante rispetto ad ogni singolo rivale. In secondo luogo va considerata la strategica autosufficienza economica goduta da Tashkent, la quale dispone delle risorse fondamentali — energetiche, alimentari, minerarie — per garantire la sopravvivenza del Paese anche in un contesto di isolamento internazionale e offrire ai decisori politici ampio margine di manovra autonoma. Altrettanto importante è la già citata presenza di minoranze uzbeke in pressoché tutti gli Stati della regione: Tagikistan, Kirgichistan, Kazakistan, Turkmenistan e, addirittura, Afghanistan. Queste comunità non solo potrebbero fungere da quinta colonna e testa di ponte nel territorio dei suddetti Paesi, ma, soprattutto, la loro difesa può fungere da pretesto ideale per intraprendere operazioni militari di natura irredentista. A tal proposito però, conviene forse fermarsi a riflettere su quanto l’affiliazione etnica risulti davvero cruciale per una serie di popolazioni la cui identità non è mai stata così rigidamente separata e definita prima delle politiche di divide et impera operate dai sovietici e da quelle di nation building perseguite dai singoli Stati una volta divenuti indipendenti. In questo senso sarebbe addirittura possibile immaginare che proprio l’elaborazione di una identità turcica più ampia, un’identità capace di ricomprendere l’interezza delle popolazioni centroasiatiche, potrebbe rappresentare l’elemento determinante nel legittimare l’ascesa di un egemone locale. Il mito del Grande Turkestan permetterebbe così di unificare le diverse popolazioni sotto un’unica bandiera, marcando inoltre — in maniera cruciale — l’estraneità rispetto al tradizionale egemone russo, etnicamente (e religiosamente) incompatibile.

Particolare importanza deve poi essere posta sulla coerenza geografica del Paese, la quale spicca, di nuovo, più per le disfunzionalità dei vicini che per i meriti di Tashkent. Tagikistan e Kirgichistan sono due Stati montuosi completamente artificiali, i cui bizzarri confini hanno origine nelle politiche di divide et impera sovietiche piuttosto che in un qualsiasi criterio di coerenza geografica, etnica o storica. Il supporto economico e militare offerto dal Cremlino a questi due Paesi rappresenta, ad oggi, l’unico fattore che permette loro di sopravvivere evitando il fallimento. In caso di ritiro russo, Tashkent non avrebbe problemi a liquidare i due Stati, mettendo così le mani sulle loro preziosissime risorse idriche e idroelettriche. Le incoerenze geografiche dello Stato kazako sono forse ancora più evidenti: gli immensi spazi posti sotto la sovranità di Nur-Sultan — oltre che consistere in un vasto territorio pianeggiante essenzialmente indifendibile — presentano una distribuzione abitativa sbilanciata tra nord e sud, con una maggioranza turcica nel sud e una russo-ucraina nel settentrione separate da centinaia di chilometri di steppe praticamente disabitate. È facile in questo senso immaginare come Tashkent possa appropriarsi della fascia meridionale del vicino, assicurandosi così il controllo su di una popolazione turcica più vicina all’heartland uzbeko che all’artificiale capitale del nord, rispetto al cui regime, nelle recenti proteste di inizio 2022, essa ha già espresso la propria insoddisfazione. Il Turkmenistan infine costituisce forse il caso più grottesco di costruzione statuale sovietica, con la quasi interezza della popolazione di etnia turkmena risiedente lungo le sponde del canale Karakum, sciagurata opera ingegneristica pensata da Mosca per trasformare un letterale deserto — il deserto del Karakum appunto — in un’area dedita alla monocoltura del cotone. L’acqua che alimenta il canale è attinta direttamente da un tratto del fiume Amu Darya collocato a poca distanza dal confine uzbeko: a Tashkent basterebbe assumere il controllo di questo punto strategico per essere nella condizione di decidere dei destini del Turkmenistan e ridurre il vicino alla propria volontà. Mettendo così le mani sulle sue ingenti risorse di gas naturale. Per quanto riguarda l’Uzbekistan invece la superiorità geopolitica del Paese deriva dal controllo della strategica valle del Fergana, heartlandagricolo, economico e demografico dell’intera regione, il cui dominio garantisce a Tashkent la possibilità di esprimere una qualche forma egemonia sull’Asia centrale. A tali vantaggi va infine aggiunto un prezioso bonus riguardante il vicino più meridionale di Tashkent. Anche il nord dell’Afghanistan risulta infatti popolato da un’importante minoranza uzbeka, e, sebbene il Paese potrebbe non essere interessato a estendere direttamente il proprio controllo su tale territorio, questa permetterebbe all’Uzbekistan di porre uno prezioso buffer tra sé e il caos afghano tramite l’influenza su di essa.

La possibile scintilla: scarsità idrica in Asia centrale

Parlare di egemonia uzbeka e formazione di un Grande Turkestan potrebbe apparire ai più un esercizio eccessivamente fantasioso, un artificio che conduce le logiche geopolitiche all’estremo mancando di prendere in considerazione tutta una serie di fattori — prima di tutto politico-istituzionali — pur rilevanti per gli equilibri delle cosiddette relazioni internazionali. Eppure, nel caso dell’area centroasiatica da tempo sono state poste le premesse per la deflagrazione di una crisi idrica che, drammaticamente, spingerà ad un conflitto serrato per il controllo di una risorsa sempre più scarsa.

Le origini della scarsità idrica che oggi affligge il centro Asia risalgono agli anni del dominio sovietico, quando venne presa la decisione di dedicare l’intera area alla coltura intensiva del cotone. Per raggiungere il proprio obiettivo, Mosca si impegnò in una serie di imponenti opere di ingegneria idraulica — tra cui la costruzione del già citato canale Karakum — al fine di dirottare le acque dei due grandi fiumi della regione, l’Amu Darya e il Syr Darya, nelle zone di coltivazione. Tale grande sistema di sfruttamento delle acque locali tuttavia, oltre che risultare estremamente inefficiente, si dimostrò incompatibile con l’equilibrio ecologico della regione, causando, come tristemente noto, la scomparsa del lago d’Aral, la cui sopravvivenza dipendeva proprio dall’afflusso dei due grandi fiumi centroasiatici. L’esaurimento dello storico bacino d’acqua — a dispetto di quanto previsto dei sovietici — ha finito con l’innescare un micidiale meccanismo di degradazione ambientale: senza la massa d’acqua del lago d’Aral a moderare il clima le temperature regionali stanno progressivamente aumentando, accelerando il ritmo di scioglimento dei ghiacciai di Kirgichistan e TagikistanSiccome questi ghiacciai consistono nella riserva primaria d’acqua per l’Amu Darya e il Syr Darya, la portata idrica di questi fiumi, da cui dipendono tutte le attività antropiche nella regione, è destinata a diminuire drasticamente nei prossimi anni

Essendo impossibile intervenire per interrompere un processo che, seppur innescato dall’uomo, è andato ben oltre le sue capacità di controllo, la regione centroasiatica rimarrà ben presto con risorse idriche insufficienti a sostenere l’attuale popolazione. La lotta per il controllo di queste sarà inevitabile, soprattutto in assenza della mediazione di Mosca, tradizionale bilanciere nelle dispute per il controllo delle risorse locali. L’Uzbekistan, forte della propria superiorità geopolitica, si troverà così in una posizione di vantaggio nel conflitto che promette di ridisegnare i confini dell’Asia centrale.

Conclusione

Ogni previsione sull’ascesa uzbeka ad attore protagonista nella geopolitica dell’Asia centrale parte dal presupposto fondamentale e imprescindibile di un declino russo nella regione. Se ciò avvenisse, gli altri grandi attori regionali poco potrebbero per impedire la nascita di un pur insidioso vicino. La Cina, che senza dubbio vivrebbe con angoscia l’eventualità di una riaccensione delle rivendicazioni degli uiguri turcofoni nello Xinjiang, non è in grado di proiettare la propria influenza così lontano, occupata com’è a risolvere le sfide interne e a fronteggiare USA e alleati nei mari adiacenti. Anzi, potrebbe addirittura gradire la formazione di uno grande Stato stabilizzatore lungo uno snodo strategico della sua Belt and Road Initiative. Un discorso per certi versi analogo vale per l’Iran, i cui occhi sono rivolti alla propria sfera di influenza nella cosiddetta “mezzaluna sciita”, ossia quel territorio che dal Golfo Persico, risalendo la Mesopotamia e passando per la Siria, giunge sino al Libano. Pur non avendo la possibilità di influire in maniera diretta sulla regione, o anzi, proprio per questo, è possibile invece immaginare la formazione di un asse turanico tra Turchia e Uzbekistan. Tale alleanza, oltre a risultare estremamente efficace su di un piano ideologico-narrativo, permetterebbe a entrambi i contraenti di godere di preziosi vantaggi. Da un lato Ankara potrebbe estendere la propria influenza panturca, ottenendo la cooperazione di un utile alleato sia nel confronto con lo storico rivale russo quanto nel contenimento dell’Iran nella regione mediorientale. Dall’altro, Tashkent potrebbe usufruire di un decisivo supporto nei settori economico e — soprattutto — militare da parte di una nazione in fase di forte ascesa geopolitica. L’efficacia del coinvolgimento più o meno indiretto dei turchi in diversi conflitti regionali, dalla Libia al Nagorno-Karabakh passando per la Siria, ha già avuto modo di essere provata, e Tashkent non avrebbe alcuna ragione per privarsene. In questo senso, la decisione uzbeka di divenire membro del Consiglio Turco risulta oltremodo significativa per un Paese che, a partire dalla sua indipendenza, ha sempre cercato di perseguire una politica estera neutralista, evitando il coinvolgimento in consessi internazionali aventi un’eccessiva impronta politica — in particolare se di origine russa. Tornando alla Russia, infine, sarebbe proprio questa a subire i danni più gravi di un consolidamento uzbeko in centro Asia, soprattutto se accompagnato alla formazione di un asse con la Turchia. La creazione di un grande Turkestan infatti costituirebbe un fattore destabilizzante in ulteriori regioni della Federazione, come nel Caucaso musulmano o nel Volga tataro. L’ascesa uzbeka potrebbe così segnare la fine del secolare controllo russo sulle steppe. Aumentando invece l’influenza di Tashkent, regime faro per i popoli della regione. Come gli antichi mercanti sogdiani, che pure avevano la loro sede nella fertile valle del Fergana, il nuovo Stato turco, enormemente ricco in risorse naturali, assurgerebbe così al ruolo di intermediario imprescindibile in quella Via della Seta che, oggi come un tempo, detta le alterne fortune dei popoli centroasiatici. 

 




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