lunedì 14 dicembre 2020 - Enrico Campofreda

Il Cairo, Egitto. “Cercano di uccidere l’anima in ogni modo”

E’ tarda sera. Mohamed è in casa, quartiere periferico del Cairo. Sente bussare alla porta, non apre. Gli squilli di campanello si fanno insistenti, seguiti da colpi sulla porta. Mohamed tentenna, poi davanti alle minacciose urla dei poliziotti "Buttiamo giù l’uscio" spalanca la soglia. Gli agenti gli sono addosso, gli rinfacciano una resistenza per aver ritardato l’apertura e gli intimano di seguirli.

 Appena sale su un’auto, non contrassegnata dall’effige poliziesca, viene bendato e a sua insaputa si ritrova in una sede della National Security. Inizia un interrogatorio. Partendo dalle sue generalità, che probabilmente gli uomini dei Servizi già conoscono e che comunque Mohamed ribadisce, si sente dire: “Dimenticale. Ora sei un numero. Il numero 100”. “Da oggi sarai chiamato così. Ricorda: nessuno sa dove ti trovi. Quando ti chiamiamo con questo numero, dovrai rispondere. L’interrogatorio termina qui. Dopo qualche ora Mohamed viene condotto davanti a quello che lui crede un ufficiale, comunque un capo. Gli agenti gli chiedono: “Dove sei?” e lui ingenuamente: “Alla National Security”. Viene subito colpito alla pancia e alla testa, quindi gli ripetono: “Non esiste una cosa chiamata National Security”. L’uomo annuisce e cerca di alleggerire la sua posizione sorridendo e poi ridendo. Un riso che aumenta e diventa isterico, mentre sullo sfondo una voce recita versi del Corano. Quindi incrocia altri catturati, forse come lui, e le guardie non gli danno tregua. Lo portano in una stanza trascinandolo in malo modo, uno l’afferra per i capelli e tira. Mohamed si lamenta, giù botte. In seguito racconterà agli amici che il trattamento era durato ore - quattro, sei - non se n’è reso conto. Strappi sulla pelle, specie sul collo. Forse è svenuto, perché s’è ritrovato in una cella. Lì ha ricevuto del cibo. “Mangia!” gli ordinava chi glielo aveva portato. Lui obbediva, allungando il riso alla bocca con le mani. Era inverno e nella cella faceva freddo, Mohamed dormiva in terra, senza nient’altro che il vestito. Passati alcuni giorni, sentì gridare “Cento!!” e rispose. Fu condotto in un ufficio definito antiterrorismo. Era pieno di militari, le voci si sovrapponevano. Così iniziò un nuovo interrogatorio, mirato e più incalzante. Si parlava del lavoro giornalistico di Mohamed, “Faccio da me, sono un free lance”, gli agenti insistevano: “Chi ti finanzia?” “Nessuno”. Colpi. Entrarono in scena cavi elettrici e partì una tortura spietata. Mohamed era provato, rimase tramortito per qualche giorno in cella, non riusciva a mangiare. Gradualmente si riprese. Due agenti nuovamente lo prelevarono. Seguendoli, temeva per la vita. Tornò davanti al capo: “Da oggi sei il numero 80. Non dimenticarlo quando verremo a riprenderti”. Uscì quasi subito da quella stanza che aveva temuto di tortura, una guardia gli porse abiti puliti indicandogli dove poteva fare una doccia. Rassettato Mohamed venne condotto in un altro ufficio, gli riconserognano il denaro, tre cellulari e la macchina fotografica che gli erano stati sequestrati nell’abitazione. Ha raccontato agli amici: “Svicolando da quel posto ho camminato a lungo senza voltarmi. Vedevo passare le auto, ma non mi sono fermato, camminavo e basta”. “Sono stato molto fortunato, perché il trattamento è durato giorni - otto, forse dieci - il mio calcolo è vago perché non so quanto tempo ho dormito in quella stanza semioscura”. “Mi chiedo quando potranno venire a riprendermi. Cercano di uccidere l’anima delle persone in ogni modo”.

Enrico Campofreda




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