sabato 22 dicembre 2012 - Antonio Moscato

I vecchi vizi della FIAT

La stampa di regime ha parlato commossa degli operai che hanno applaudito Monti che accettava l’investitura dal suo amico Marchionne, senza dire come erano stati scelti tra i lavoratori legati ai sindacati scodinzolanti, i cui capi erano in platea. Al massimo segnalavano come “nota di colore” che Landini stava fuori con qualche operaio della FIOM e dei Cobas.

Non è la prima volta. In genere è abbastanza nota la discriminazione anti FIOM negli anni Cinquanta, con i reparti confino e poi il licenziamento. Ma è interessante vedere come, per stabilire un buon rapporto con Mussolini, che assicurò subito una protezione speciale alla FIAT non solo con le commesse militari, nella FIAT di Agnelli e Valletta si usava già selezionare con le buone o le cattive gli operai plaudenti.

Ecco due stralci dal libro Cento… e uno anni di FIAT che doveva essere un supplemento di “Liberazione” e che fu bloccato in extremis anche a costo di pagare una forte penale all’editore Erre Emme a cui era stato affidato con regolare contratto. Così funzionava il vertice di quel partito…

Oggi il libro è per intero nel sito, già abbastanza visitato, ma lo consiglio vivamente a chi non lo ha letto. I due brani qui riportati sono estratti dal primo capitolo, Cap.1, che arriva fino al 1945. 

 

1) La prima fase dopo la marcia su Roma

[…] Il 28 ottobre Agnelli era stato tra i primi a inviare un telegramma di felicitazioni a Mussolini, a cui presto chiese ingenuamente di smobilitare le squadracce e di “mettere un freno ai ras di provincia”, come il “quadrumviro” De Vecchi, rozzo e ignorante (temeva che fosse controproducente). Ma subito dopo riconobbe ai sindacati fascisti, che pure non avevano i requisiti di legge, il diritto a partecipare alle elezioni della commissione interna. A chi dei suoi amici liberali lo criticava per questo gesto, Agnelli rispose cinicamente che i sindacati fascisti avevano il merito di evitare la contrapposizione “muro contro muro”, e di dissociarsi dalla FIOM, che era rimasta legata ai “vecchi metodi di lotta”, cioè allo sciopero.

E siccome De Vecchi, viceversa, considerava a sua volta suoi nemici nel partito i sindacati fascisti, che puntavano sulla demagogia e non solo sui manganelli, Agnelli lo scavalcò, invitando Mussolini a Torino a visitare il nuovo stabilimento del Lingotto, apprezzato anche da Le Corbusier per la moderna struttura architettonica.[1] Per l’inaugurazione vera e propria era stato invitato, poco prima, il re. Mussolini accettò, pur evitando lo scontro diretto con il più accanito avversario di Agnelli, De Vecchi, che anche in ambiente fascista era soprannominato per l’aspetto fisico e la scarsa intelligenza “un cazzo con i baffi”, ma continuava a controllare le squadracce piemontesi.[2]

Poiché Cesare Maria De Vecchi continuava a pregiudicare i rapporti con la FIAT, che definiva la “plutocrazia industriale”, Mussolini, per allontanarlo da Torino, lo chiamò a Roma con la promessa di un alto incarico e il titolo nobiliare di conte di Val Cismon; lo spedirà poi come governatore in Somalia, dove De Vecchi farà stragi ma si arricchirà rapidamente.

Ad Agnelli invece Mussolini fece arrivare, prima della visita al Lingotto prevista per l’autunno del 1923, la nomina a senatore del regno, che viene fatta dal re “su proposta del capo del governo”. E il Duce prepara bene la sua “marcia su Torino”, come la chiamerà Piero GobettiPer prevenire contestazioni anche Giovanni Agnelli prende le sue misure: convoca le commissioni interne per informarle, e ai mugugni risponde che “ci sono tre modi per riceverlo: applaudire, tacere o sabotare. Vi lascio scegliere tra i primi due. Il terzo modo lo stroncherò con ogni mezzo”. La maggior parte degli invitati - selezionatissimi - al ricevimento, sceglieranno il secondo, e gli operai rimasti al lavoro saranno dissuasi dal manifestarsi da una massiccia presenza di squadristi e di milizia.

Agnelli si compiaceva allora di fare circolare la voce che fosse fascista a Roma e antifascista a Torino (bella cosa!), ma chiudeva il suo discorso con un “Viva Mussolini”. Comincerà a dire che è “mussoliniano”, ma non fascista.[3] Intanto ottiene dal “capo”, con cui stabilisce un rapporto diretto, oltre all’abolizione della nominatività dei titoli azionari anche l’accantonamento dei provvedimenti di confisca dei sovrapprofitti di guerra per gli industriali (che avevano fatto parte del programma demagogico del primo fascismo), la riduzione delle imposte di ricchezza mobile sulle società anonime e i loro amministratori, e soprattutto lo scioglimento prima delle commissioni interne e poi dei sindacati, per dare vita al nuovo ordinamento corporativo.

Inoltre, con la complicità di ministri come Aldo Finzi (ebreo e fascista), del quadrumviro Italo Balbo, il senatore Agnelli si era impossessato di vari quotidiani sottratti all’opposizione, tra cui il Resto del Carlino, nel cui Consiglio di Amministrazione aveva collocato il figlio Edoardo mentre Mussolini vi era rappresentato dal fratello Arnaldo. Al momento della crisi per l’assassinio di Giacomo Matteotti, il cui corpo risultò essere stato trasportato con un auto di quel quotidiano bolognese, Agnelli tace a lungo, con grande stupore dei suoi vecchi amici liberali. Quando si arriverà al voto, Agnelli lo darà a Mussolini, che non dimenticherà.

2) Agnelli entra nel PNF

Poco dopo la liquidazione di Turati e la crisi di relazioni provocata dalla sortita sulla riduzione d’orario, Mussolini volle celebrare al Lingotto il “Decennale della rivoluzione fascista” con una spettacolare scenografia: parlò da un palco a forma di incudine (anche per ricordare le sue origini di “figlio del fabbro”), con sullo sfondo il simbolo della FIAT ornato da un grande fascio. 

Gli operai hanno dovuto sospendere il lavoro in tutti gli stabilimenti e recarsi inquadrati e preceduti da fanfare alla manifestazione. Questa volta sono stati retribuiti, e forzati a “manifestare il loro entusiasmo” (nella precedente visita del duce, Agnelli aveva trattenuto la paga ai partecipanti, e aveva fatto capire che non gradiva eccessive manifestazioni di consenso). 

Il figlio di Giovanni Agnelli (e padre di Gianni) sta sul palco in divisa fascista. Ma, in quell’ottobre 1932, Agnelli fu avvertito dal prefetto che “il Capo del Governo si era manifestato nel senso che ormai era opportuna l’entrata di Agnelli nel Partito Nazionale Fascista”. Agnelli dirà poi di aver dovuto trangugiare un “amaro calice”, perché aveva sempre pensato di restare esente da una simile imposizione come i membri della dinastia sabauda. Ma lo trangugiò.[4]

Elena Croce, la figlia del filosofo, osserverà a questo proposito che “Agnelli affettava con umiltà un’assoluta innocenza nelle cose della cultura e della politica, ma non ci voleva molto ad accorgersi che la prima era fatta di disprezzo, e la seconda di calcolo e paura”.

 



[1]Le Corbusier considerava il Lingotto un “documento per l’urbanistica”, perché “utile nella precisione e nella chiarezza, nell’eleganza e nell’economia più stretta”. V. Castronovo, op. cit., p. 334.

[2]A. S. Ori, op. cit., p. 123.

[3]Agnelli non era l’unico industriale liberale a tentare questa distinzione: anche un editoriale di Giuseppe Belluzzo su “L’Industria” del novembre 1923 aveva presentato l’atteggiamento degli imprenditori italiani con la formula “mussolinismo più che fascismo”. (V. Castronovo, op. cit., p. 337). Era un evidente tentativo di separare il ruolo del primo ministro da quello delle squadracce e dei sindacati fascisti. Ma durerà fino alla verifica dell’assassinio Matteotti.

[4]Ivi, pp. 466-467.

 



1 réactions


  • (---.---.---.196) 22 dicembre 2012 20:05

    Chi paga >

    Berlusconi e Monti fanno a gara nell’addossare ai governi precedenti l’enorme crescita del nostro Debito. Basta fare i conti.

    Se sommiamo l’incremento del Debito registrato durante i 4 mandati di Berlusconi e quello di Monti arriviamo a superare gli 800 miliardi.
    Al netto di tale cifra, nonostante l’ulteriore calo del Pil (2,5 punti), l’attuale rapporto Debito/Pil scenderebbe dal 126% all’80%.

    Oltre a non dover abbattere il Debito di 40 mld (già dal 2013), pagheremmo almeno 30 miliardi in meno di interessi.
    Risorse più che sufficienti per varare subito concrete azioni di rilancio dell’economia e di sostanzioso aiuto alle famiglie.
    Altro che sperare.
    Di suadenti “promesse” e di spiegazioni “paludate” trabocca anche un Dossier Arroganza


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