sabato 12 febbraio 2011 - Trilussa

I quattro bambini rom morti: degli invisibili

Solo la morte li rende visibili, li fa emergere dall’oscurità e dal degrado in cui nascono e in cui muoiono. Fantasmi che vediamo di sfuggita, che ci passano accanto senza sfiorarci che diventano persone solo con la morte.

Chi conosceva prima di oggi Patrizia, Raul, Sebastian e Fernando?

Certamente nessuno di noi e purtroppo nemmeno chi avrebbe dovuto conoscerli per proprio ufficio. Sono nomi di bimbi che fino a ieri non dicevano niente, creature invisibili, bambini anonimi che se ti capitava di incontrarne uno per strada lacero, scalzo, sudicio e ti tendeva la mano o ti chiedeva qualcosa cambiavi percorso o marciapiede e dentro di te sentivi come un sentimento di disagio, o addirittura di disgusto, per quella miserabile condizione.

Condizione “indecorosa” viene da dire e da pensare ma forse bisognerebbe rifletterci meglio e considerare indecorosa la povertà e non i poveri che la subiscono.

Una povertà vissuta non in un del terzo mondo dove questa è diffusa in maniera universale, dove manca una vera economia di mercato e magari le ricchezze le sottosuolo sono appannaggio di qualche potenza straniera che al popolo lascia solo qualche spicciolo, ma una povertà in uno dei paesi più industrializzati del mondo.

Un paese dove i soldi si sprecano nel lussuoso mantenimento di una classe politica arrogante e inefficiente e in cui i privilegi personali hanno raggiunto vette di indecenza, si sprecano nella feste discusse e discutibili dell’Alta Borghesia (romana e non) fino ai massimi livelli istituzionali, si disperdono in amministrazioni pubbliche elefantiache e forse proprio per questo inefficienti, in un sistema partitico obsoleto e decadente, in fiumi di denaro che solo in minima parte arrivano alla destinazione per cui sono stati stanziati. Un paese ricco dove la ricchezza da evasione fiscale da sola potrebbe servire a costruire case decenti non solo per tutti gli sfrattati italiani o in attesa di esserlo, ma anche per molti di quei 160.000 zingari stimati al 2008 presenti in Italia dall’Opera Nomadi. Di questi 70.000 hanno addirittura cittadinanza italiana e 90.000 provengono dai Balcani.

Ricordiamo che l’Italia è tra i Paesi europei con la più bassa percentuale di rom/sinti (0,3%: al 14° posto nell’Ue), con una mortalità però da terzo mondo: la vita media è infatti intorno ai 40-50 anni con un’alta percentuale di bambini.

Fra quelle cifre di mortalità bisogna oggi aggiungere anche questi quattro, bambini dai 4 agli 11 anni, bruciati nel rogo della loro casetta di cartone incendiata da un braciere che i genitori avevano acceso per scaldare la stanza dove dormivano.

E subito è scattato il circo mediatico e la ricerca delle responsabilità. Il sindaco che chiede poteri straordinari per la situazione di emergenza, i servizi sociali messi sotto accusa perché di questi bambini non si erano occupati, i campi fatiscenti che nascono da un giorno all’altro nelle periferie urbane occupate da persone scacciate da altri luoghi appena c’è qualche protesta, qualche notizia che si affaccia niente niente alla cronaca cittadina. Solo allora ci si accorge di questi campi vergognosi e di queste persone miserevoli e si prova vergogna di noi stessi per non aver fatto niente, “una vergogna partorita dal veleno dell’indifferenza, dalle piccole miserie etniche, dalla propaganda e dall’incuria”.

I loro corpi carbonizzati sono stati trovati abbracciati e questo ci colpisce e ci costringe a reagire perché li rende umani, li fa somigliare di più ai nostri figli e solo così, con la morte, possono diventare visibili, possono essere considerati persone e non ladri, delinquenti, straccioni, non meritevoli di diritti come qualche partito politico vorrebbe farci credere.

Purtroppo il problema nomadi esiste perché nell'organizzazione moderna della società europea non esiste più neanche uno dei fattori costitutivi di una cultura nomade.

Il nomadismo significava infatti spostamento. Significava viaggiare attraverso i territori nutrendosi dei frutti spontanei del territorio e trovare sostentamento nell’allevamento dei cavalli, nel piccolo commercio di prodotti di rame e di vimini di tipo artigianale, sfruttando il buoncuore degli abitanti per racimolare un po’ di denaro, alimenti e vestiti, prevedendo il futuro sulle linee della mano.

E’ evidente che tutto questo oggi non è più possibile ed i nomadi non sono più “nomadi” per scelta ma i loro spostamenti derivano soprattutto dagli interventi delle autorità che li sgomberano da un posto e li costringono ad andare in un altro da dove, prima o poi, dovranno sloggiare di nuovo. Tutte cose che hanno ridotto a ridotto i cosiddetti «nomadi» a fingere di esserlo soltanto perché la roulotte è una casa con le ruote, e perché l'elettricità e il gas hanno degli attacchi provvisori invece che fissi e perché raccattano rame o ferro qua e là (quando non lo rubano).

“Ma una cultura, se non fa storia tutti i giorni, se non si evolve insieme al contesto, se non produce, non inventa, è morta. Le culture muoiono. Questa è una constatazione che tutti possono fare. Le «riserve» degli Indiani d'America sono anch'esse riserve di cultura morta, quanto i campi nomadi. Non si scontrano con la realtà della società moderna perché nell'immenso spazio degli Stati Uniti possono fingere di essere isolati nel loro mondo. Ma per i nomadi dell'Est europeo nelle nostre città questo non è possibile. Dunque l'unica cosa giusta da fare è sollecitarli a vivere nella società contemporanea, negli Stati di cui sono cittadini e di cui conoscono la lingua, abbandonando il costume nomade. Questo non è affatto offenderli, come vorrebbe il politicamente corretto, ma invitarli a essere «vivi»; il che non significa il che non significa altro che fare quello che tutte le culture oggi viventi hanno fatto: consegnare alla storia il proprio passato, scrivendolo, raccontandolo, facendone arte, teatro, romanzo, avanzare nell'attualità portando con sé il passato, ma guardando al futuro.”

Credo che questa, proposta da Ida Magli sul Giornale, sia una soluzione ragionevole da valutare con attenzione. Cercare cioè di inserire queste persone nel nostro contesto culturale e sociale, facilitato dal fatto che molti di loro sono già cittadini italiani, quasi tutti parlano la nostra lingua. E bisognerebbe partire proprio dai bambini, assicurando loro la scuola dell’obbligo con incentivi nel caso volessero continuare negli studi. Credo che la chiave sia proprio quella della cultura, della elevazione sociale, sia pure piccola, limitata ma che permetterebbe un cambiamento radicale delle loro abitudini divenute oramai anacronistiche in uno stato moderno, in una società profondamente diversa da quella da cui il nomadismo aveva avuto origine.

Certamente questo progetto avrebbe bisogno di interventi economici adeguati, di una politica adeguata ed anche l’abbandono di quella mentalità razzista che solo episodi come la morte di quattro poveri bambini affievolisce, almeno per qualche istante.

Servirebbe per questo ultimo problema un po’ di memoria storica, quella che vede noi italiani, poveri, malvestiti, ignoranti, analfabeti su quelle navi stracariche che ci portavano in America, povero emigranti che scappavano dalla povertà della loro terra pieni solo di grandi speranze e di molto dolore per avere lasciato a casa famiglia, parenti e amici.

C’è proprio in questi giorni una bellissima mostra al Palazzo Ducale di Lucca (ore 17,30; ingresso libero) dal titolo "Lungo la scia di un'elica", organizzata dalla Provincia e dalla Fondazione Paolo Cresci col patrocinio del ministero per i Beni culturali e della Regione. E’ una mostra di foto e di documenti che racconta centocinquanta anni di storie di migranti: le storie degli italiani andati a cercar fortuna all'estero e quelle degli immigrati di oggi, che nel nostro Paese vedono e cercano ancora “lamerica”

Un articolo del Corriere della Sera sull’evento.



1 réactions


  • roberto (---.---.---.79) 12 febbraio 2011 15:46

    agoravox dovrebbe censurare molto di meno gli articoli in generale e pubblicarli piu in fretta in google news grazie redazione

    è un osservazione non solo mia ma anche di altri


Lasciare un commento