lunedì 28 settembre 2020 - Osservatorio Globalizzazione

I giorni del Covid: cronaca dell’ora più buia della pandemia

Negli ultimi mesi si è scritto molto sulla questione coronavirus. In un arco temporale di circa sei mesi, sono usciti articoli, saggi, numerosi studi scientifici, a volte contraddittori tra loro. I posteri che studieranno i primi anni venti del XXI secolo, scopriranno che sono stati anni con molti eventi significativi.

 Basti pensare alla crisi economico-finaziaria, ai grandi flussi migratori e non ultimo la pandemia globale. In un mondo in cui tutto scorre velocemente e siamo bombardati ogni giorno da milioni di informazioni, spesso contraddittorie, si ritiene necessaria una ricostruzione storica degli eventi per meglio comprendere come tutto ha avuto inizio. Ne parliamo con Matteo Manfredini, che per dodici anni ha vissuto a Bruxelles dove ha lavorato per il Parlamento Europeo presso la Casa della Storia Europea, scrittore e già collaboratore di una rubrica di arte e cultura con la rete televisiva belga TV Brussel. Nel suo ultimo libro: I Giorni del Covid. Cronaca di una Pandemia, Manfredini ricostruisce storicamente, con numerose fonti, i fatti relativi all’emergenza sanitaria mondiale, traendo infine alcune conclusioni su cosa questo nuovo virus ha detto di noi.

Il suo libro è uno dei primi tentativi di ricostruire storicamente i fatti accaduti a partire dai primi casi riscontrati in Cina. Su quali fonti ha potuto sviluppare il suo lavoro?

La questione delle fonti è fondamentale, soprattutto in un lavoro legato ad un argomento su cui non esiste ancora una letteratura vera e propria. Ci sono centinaia di fonti in questo libro, nella maggior parte dei casi si tratta di articoli presi da giornali anglosassoni che hanno condotto le prime inchieste su quanto accaduto: New York Times, The Guardian, Washington Post, oltre a BBC e CNN. Poi ci sono molti documenti ufficiali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, le dichiarazioni nelle conferenze stampa dei suoi funzionari a Ginevra e altro materiale prodotto dai ministeri della sanità europei. Ho cercato di supportare ogni concetto con molto materiale, per dare la possibilità ai lettori di approfondire temi specifici. Effettivamente, nel libro c’è una sitografia fondamentale che riassume il lavoro fatto dai giornali nei primi mesi del 2020. Un punto di partenza anche per i prossimi lavori sull’argomento.

Nel suo libro viene trattata la strategia diplomatica utilizzata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, in particolare cosa è stato fatto, cosa non ha funzionato e perché. Il caso dell’OMS, può essere considerato come l’ennesimo esempio del declino delle organizzazioni internazionali figlie dell’ordine liberale?

Questione molto complessa, tanto che ho dedicato un lungo capitolo a su quanto accaduto negli uffici di Ginevra. Prima di tutto ho analizzato e descritto i ritardi nell’aggiornamento dei protocolli indirizzati agli stati membri che indicavano quali pazienti testare. Inoltre, ho paragonato e approfondito come in altre crisi sanitarie, tutta la macchina si sia mossa con più celerità.

Descrivo a lungo i rapporti tra OMS e Cina, le domande non poste a Pechino, la fiducia incondizionata sui dati che arrivavano da Wuhan. La mia tesi non è quella di una OMS comandata e gestita dai cinesi (come ha tentato di far credere Trump a più riprese), ma di una scelta diplomatica rischiosa e troppo azzardata. Intendo dire che la compiacenza verso la Cina, può essere intesa come un tentativo di ottenere numeri più precisi sulla situazione sanitaria nell’epicentro del contagio (dati che non arrivavano con puntualità a gennaio) e al contempo un modo per non tagliare i rapporti con Pechino.

Ma il problema di base rimane che l’Oms non ha nessun potere coercitivo verso gli stati membri. In una situazione ideale, dopo i primi sospetti e segnalazioni apparsi ai primi di gennaio, un team di esperti internazionali sarebbe dovuto recarsi sul campo a Wuhan, raccogliere dati e fare valutazioni in pochissime ore. Ma si tratta di fantapolitica, la realtà, come abbiamo visto, si è rivelata diversa. Certo è possibile che tutta la macchina dell’Organizzazione Mondiale della Sanità esca riformata dalla pandemia di Covid, come del resto è successo dopo la crisi della Sars. Ma è difficile prevedere cosa accadrà.

È possibile pensare ad una nuova idea di Globalizzazione post-pandemia?

Il mondo oggi è molto più diviso rispetto a gennaio 2020, basti pensare che in Europa si è sospeso Schengen in molti Paesi. Sono ritornate le code alle frontiere, i passaporti da esibire e i documenti da compilare. Una situazione impensabile fino a qualche mese fa. Senza considerare le difficoltà di spostarsi da un continente all’altro, le compagnie aeree al collasso finanziario le cui conseguenze non saranno riassorbite rapidamente.

Lasciando da parte la politica, ci sono molti aspetti della vita quotidiana, soprattutto in quella delle persone abituate a vivere sugli aerei, che sono state sconvolte. Oggi le conferenze internazionali di grandi multinazionali si fanno da casa. Insomma il concetto di globalizzazione, o meglio di cittadino di un mondo globale, cambierà certamente. Sicuramente, molto dipenderà dal tempo in cui questo virus resterà tra noi.

Secondo lei, con la pandemia abbiamo riscontrato un declino del populismo con invece un affermarsi del sovranismo e una tendenza all’isolazionismo?

Non sono sicuro che il populismo sia stato scalfito, ma certamente il sovranismo ha vissuto mesi floridi. E c’è chi ha sfruttato l’epidemia a fini politici. Del resto un virus è una minaccia subdola, invisibile, difficile da determinare, così per molti circoli conservatori è stato facile soffiare sul fuoco del razzismo e del nazionalismo, individuando un nemico esterno, uno straniero portatore di virus, un untore da incolpare. La cosa tragica è che noi italiani abbiamo finito per diventare un bersaglio su cui scagliare accuse, visti con sospetto sin dall’inizio della pandemia. Credo però che, tutto sommato, sia stato qualcosa che ci abbia fatto capire quali possono essere le conseguenze della discriminazione generalizzata.

Altra cosa è invece la questione della chiusura dei confini per fermare l’epidemia per motivi sanitari e non prettamente politici. Ne parlo a lungo nel libro perché ci sono studi difficilmente conciliabili a riguardo. Chiudere le frontiere non evita che il contagio si propaghi in altre nazioni, anche se certamente rallenta la corsa del virus. Però se passa la linea di una comunità internazionale che adotta atteggiamenti punitivi nei confronti dei Paesi colpiti da una epidemia, si rischia di avere governi che non comunicano situazioni potenzialmente pericolose per paura di ritorsioni.

L’Europa ha riscoperto la necessità di fare debito comune per affrontare la crisi. Pensi che la pandemia possa rilanciare l’idea originaria di Europa?

Lo spero. Oggi l’Europa è ancora profondamente divisa, sono tornati i controlli ai confini, pochi aerei e pochi treni, ma deve essere chiaro un concetto: da questa crisi sanitaria non ne usciremo come italiani, francesi o tedeschi, ma solo come cittadini europei (se non come cittadini del mondo). Nei prossimi anni sarà auspicabile una riforma che deleghi poteri importanti in materia sanitaria anche a Bruxelles, cosa che ora non esiste. Il Covid ci ha mostrato l’urgenza di elaborare un piano antipandemico europeo, in cui le scorte di dispositivi di protezione e il personale medico possano velocemente muoversi da una zona all’altra a seconda dell’emergenza. La prossima pandemia non deve trovarci impreparati.

Purtroppo nel linguaggio comune è entrata l’idea che l’Italia abbia vinto qualcosa durante gli infiniti tavoli di trattative sulle questioni finanziarie e sui prestiti. È un linguaggio assurdo che danneggia tutta l’Unione Europea. L’Italia non ha vinto nulla, non c’era nessuna guerra da vincere, ma un negoziato complesso per aiutare i Paesi più colpiti dalla crisi sanitaria.

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