Hezbollah realismo politico e rischi del disarmo
Non soltanto la riorganizzazione della Striscia di Gaza - intesa come ecatombe, cenerizzazione, snaturamento, svuotamento e deportazione della sua gente più o meno sopravvissuta - nei piani dell’inestirpabile alleanza israelo-statunitense c’è altro.
I malefìci di Tel Aviv e Washington proseguono sul Libano, e dopo l’avvìo distruttivo degli oltre 1600 attacchi dal cielo e da terra di Israel Defence Forces con un migliaio morti e l’azzeramento del vertice politico-militare del Partito di Dio, l’azione diplomatica cerca sponda su figure istituzionali libanesi come il neo presidente Aoun. Lui è Joseph, niente a che vedere con l’omonimo e ormai ultranovantenne Michel che ha guidato il Paese dei cedri dal 2016 al 2022, se non nel fatto di vestire la divisa col grado di generale. Due militari dunque, entrambe maroniti come vuole la distribuzione delle cariche su base confessionale, ma mentre Michel nasceva da umile famiglia nel quartiere simbolo della comunità sciita, quell’Haret Hreik pluribombardato nel settembre scorso dai caccia israeliani, e forse per questo e soprattutto per malleabilità politica aperto e inclusivo verso Hezbollah, l’attuale presidente pur avendo radici in un altro sud a maggioranza sciita che guarda verso Israele, ha visione e coperture politiche differenti. La sua elezione, nel gennaio di quest’anno, ha avuto il sostegno della tradizione maronita, dalle Forze Libanesi al Partito Kataeb legate ai cupi trascorsi della guerra civile interna, spesso al servizio proprio di Israele. Comunque anche i drusi di Jumblatt gli hanno offerto sponda e voti. Così, piegati militarmente dai ripetuti assalti di Tsahal, i resti di Hezbollah hanno dovuto subire l’attuale quadro istituzionale fortemente voluto dai piani predisposti da Stati Uniti, Francia e Arabia Saudita, tutto col gradimento estremo nella Knesset. Ora nel dibattito internazionale in corso c’è all’ordine del giorno un antico pallino della destra libanese: la smobilitazione delle milizie di Hezbollah. Che avevano avuto ragione d’esistere e rafforzarsi un ventennio or sono a partire dalla difesa del suolo patrio dagli assalti d’Israele, vista l’inconsistenza e indeterminazione di quell’esercito in cui l’attuale presidente vanta un tratto della propria carriera. E che erano diventate la spina nel fianco settentrionale dello Stato sionista per la pressione sui villaggi di confine a suon di lanci missilistici. Hezbollah, sostenuto dal partito dei Pasdaran iraniani, è la motivazione chiave con cui il governo Netanyahu ha ampliato il fronte ed è tornato a colpire e invadere il Libano.
Non solo tartassando la rete dei militanti sciiti, feriti e uccisi con attentati spettacolari, pensiamo all’esplosione contemporanea di beeper e walkie talkie nelle loro mani, ma infiltrandola tecnologicamente, umiliandola organizzativamente, danneggiandola militarmente fino a renderla quasi impotente. L’impatto della sua passata forza, evidenziato nel conflitto del 2006 e messo a disposizione della difesa nazionale, è svanito in poche settimane mentre finivano triturati dalle esplosioni i maggiori esponenti, compreso “l’inattaccabile” Nasrallah. Uno smacco pesantissimo che dovrebbe essere letto con occhio preoccupato dalla società libanese visto che Israele prosegue la pressione su quel territorio e la memoria della popolazione non va solo a quanto accadde nel 1978 e 1982, ma a quanto Israele mostra in Cisgiordania e sulle alture del Golan. L’agenzia Reuters ha rivelato che un alto funzionario di Hezbollah si mostra disponibile a trattare con Aoun la questione delle armi solo se Israele si ritira completamente e interrompe gli attacchi sul Paese. L’Idf è tuttora posizionato in cinque punti strategici vicino al confine meridionale libanese e si sarebbe dovuto ritirare già da due mesi, ma anche le milizie sciite dovevano deporre le armi e questo non è accaduto. Fra smentite e discorsi a mezza bocca chi è vicino al Partito di Dio fa sapere che sarebbe disponibile a un dialogo nazionale e allo sviluppo d’una strategia di difesa, non al disarmo. Dal momento dell’insediamento Aoun s’è impegnato a garantire che lo Stato libanese diventi l'unico garante bellico: "La decisione di limitare il possesso di armi allo Stato è stata presa. Sarà attuata col dialogo, non con la forza”. Fra le ipotesi in circolazione c’è quella di un’integrazione nell’esercito di Beirut dei combattenti di Hezbollah. Bisognerà vedere cosa pensa Teheran, sebbene un’ipotesi favorevole al disarmo esiste e viaggia attorno ai colloqui sul nucleare ripresi fra la delegazione statunitense e iraniana in Oman, e che sabato avrà come ulteriore sede l’Italia. Fra gli analisti c’è chi pensa che conservatori e riformisti nel Paese degli ayatollah assillato dalla morsa economica dell’embargo convergano tutti sull’opportunità riapertasi coi dialoghi, che proprio la prima amministrazione Trump aveva troncato. I negoziatori parleranno delle percentuali d’arricchimento dell’uranio ma pure degli assetti geopolitici mediorientali. E per il Libano la situazione è sicuramente più malleabile rispetto a Gaza.
Enrico Campofreda