mercoledì 9 giugno 2021 - Enrico Campofreda

Herat, giù le bandiere della guerra

L’ammainabandiera dell’occupazione si svolge a Camp Arena, la base Nato di Herat, casa dei militari italiani, e per vent’anni di diversi giornalisti nostrani ‘incorporati’. Il parà che oggi saluta la mesta discesa degli stendardi (tricolore, stelle e strisce, e l’inventato simbolo del Resolute Support) che tre generazioni di cittadini afghani - dunque non solo i taliban - hanno considerato bandiere di guerra, da domani all’11 settembre prossimo volerà via assieme ai commilitoni.

 Trascinandosi apparecchiature di difesa e offesa, quelle armi che hanno sempre rappresentato la smaccata contraddizione di missioni cosiddette di pace. I primi cento in divisa giunsero dalle caserme nostrane dal dicembre 2001, due mesi dall’avvio dell’operazione Enduring Freedom. L’ottobre successivo i reparti furono rafforzati con centinaia di specialisti alpini, parà, bersaglieri, carabinieri per l’Isaf Mission, e dal 2014 per il citato Resolute Support. Cinquantamila nostri militari si sono alternati negli anni, con una punta massima di quasi cinquemila effettivi, sempre e comunque diretti dal comando statunitense. E cinquantatré bare di ritorno. Una missione di servizio più che alla Nato alla politica estera americana, che con George W. Bush decise l’invasione dell’Afghanistan. La mantenne durante i due mandati di Barack Obama, raggiungendo il massimo delle truppe sul campo: 140.000 uomini. Proseguì con Donald Trump, seppure con l’intenzione di sganciarsi da un pasticciaccio geopolitico che ha prodotto esclusivamente danni. Non solo per la disfatta del sedicente progetto di democratizzazione del Paese, una gigantesca balla venduta a un’opinione pubblica che si è voluta, e si vuole, tenere disinformata sulla reale situazione interna. I fatti hanno svelato la corruzione dei politici promossi dall’Occidente - prima Hamid Karzai, quindi Ashraf Ghani -; i loro rapporti coi vecchi Signori della guerra, reintrodotti nelle Istituzioni e nei governi; il sostegno a un fondamentalismo non inferiore a quello dei talebani che si volevano combattere.

Balle sulla diffusione di servizi scolastici, tuttora impossibili per ampi strati di ragazze e ragazzi che vivono in province perennemente in guerra. E sull’implemento della giustizia civile e penale (a lungo nostri parlamentari si sono vantati di questo), mentre la giustizia era ed è impedita da magistrati conniventi con boss locali, con guerrafondai, coi talebani stessi. Fino all’ulteriore gigantesca bugia della riorganizzazione d’un esercito nazionale che, pur inquadrando fino a 350.000 uomini, ne ha continuato a perdere migliaia per la mancanza totale di prospettive socio-politiche d’uno Stato inesistente. Ai denari gettati al vento: 2.200 miliardi di dollari da parte statunitense, dieci miliardi sul versante italiano, s’aggiungono le inquietanti percentuali sulle condizioni di vita: un tasso di povertà al 55% (nel 2001 era del 33%), su quello di disoccupazione (circa il 10% della media mondiale inalterato anch’esso, come la condizione dei diritti civili). Mentre la produzione dell’oppio in diciott’anni è più che raddoppiata. Cifre ufficiali dell’Unama dichiarano duecentocinquantamila vittime, ma altre voci provenienti da ambienti contigui ricordano come i numeri passano essere sottostimati, alla stregua di quelli dei grandi massacri interetnici della guerra fra i warlords nel quadriennio 1992-96. Ottantamila morti dichiarati, secondo associazioni afghane per la giustizia come il Saajs l’ecatombe fu più ampia. La fredda contabilità che dal 2017 a oggi, in una fase di attenuazione del conflitto, ha visto aumentare stragi e vittime civili. C’è poi la penosa questione dei questuanti d’uno stato di protezione: cinquecento fra interpreti, tuttofare e propri familiari, al servizio dei reparti militari italiani chiedono d’essere portati via perché temono rappresaglie talebane. I turbanti dicono che se costoro si pentiranno d’un passato compromesso dalla prossimità con le truppe d’occupazione non gli sarà torto un capello. Nessuno si fida e la richiesta si fa pressante. Oltre ai profughi Roma dovrà attendere anche l’arrivo dei “collaborazionisti”.

Enrico Campofreda

 




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