sabato 16 marzo 2013 - Enrico Campofreda

Hambastagi, lotta democratica a un passo dalla clandestinità

Kabul – Dopo la manifestazione dell’8 marzo dedicata alla questione femminile ma con l’occhio sempre rivolto alla realtà del Paese - meeting che ha raccolto una delegazione di seicento persone rigorosamente al chiuso per ragioni di sicurezza - incontriamo alcuni dirigenti del partito Hambastagi in una delle sedi-appartamento nella periferia della capitale.

La formazione politica è legale ma il livello di guardia è altissimo. L’establishment di governo cerca ogni pretesto, giuridico o generico, per ostacolarne l‘attività. Un anno fa proprio uno dei giovani dirigenti presenti fu arrestato nel corso d’una protesta organizzata davanti al ministero dell’Interno; venne rilasciato dopo diverse settimane a seguito di un’ampia pressione politica internazionale.

E non sono mancate aperte minacce ai militanti più noti col preciso scopo di spezzare il rapporto che il partito cerca con la popolazione. Colpire la dirigenza e intimorire i simpatizzanti ha la finalità d’isolare questa forza democratica apertamente schierata contro Karzai e i suoi vice, Fahim e Khalili, noti ed efferati Warlords.

Signori Afisullah, Saman Basir, Tufenda nel giorno del vostro appuntamento politico si è verificato un attentato in pieno centro, che situazione c’è attualmente?

Era un’azione talebana rivolta al capo del Pentagono in visita a Kabul. Tutto è diventato precario, il governo maschera un controllo del territorio ma esso è relativo nella stessa capitale. Negli ultimi mesi la situazione è peggiorata, s’inizia a respirare l’aria del parziale ritiro del contingente Isaf e i politici locali che non hanno corpi paramilitari non si sentono sicuri. I funzionari dell’apparato straniero non si fidano dell’esercito afghano. Il ministero della Difesa recluta da due anni una gran quantità di giovani, ma selezione ed esercitazione lasciano a desiderare. Per i talebani è facile infiltrare uomini, come dimostra più di un attentato. Parecchi vestono la divisa perché avranno pasti e uno stipendio, in tanti casi si tratta di soggetti senza scrupoli, ladri e criminali.

E qual è la vostra condizione?

Siamo presenti in 22 province su 34 eppure rischiamo continuamente di finire fuorilegge perché si cerca di elevare il quorum di rappresentanza per essere considerati un partito nazionale. I problemi da risolvere riguardano sicurezza e finanziamenti. Entrambi sono temi difficili da affrontare. Come vede per riunioni ed attività si utilizzano anche case di simpatizzanti (il piccolo edificio in cui ci troviamo è presidiato da sei guardie del corpo armate di kalashnikov, che nelle vie è un’arma diffusissima, ndr).

In quattro aree complicate - Bamian, Mazar-e Sharif, Farah, Jalalabad - per entrambe le questioni siamo costretti ad affittare una stanzetta che funge da sede e stiamo avviando contatti sul web con la segreteria centrale. Un dirigente del ministero dell’Interno, che è un nostro sostenitore, ci ha rivelato che non possono chiudere gli uffici del partito di Khalili (Hezb-e Wahdat, ndr) né quelli di Dostum (Jombesh-e Islami , ndr), possono invece azzerare i nostri.

Ma se doveste finire in clandestinità gli attivisti potrebbero sopportare una militanza ancor più onerosa?

Finire in clandestinità è per noi l’ultima spiaggia, la linea scelta dall’ultimo congresso (nel 2010, ndr) è stata quella di sfruttare ogni minimo spiraglio democratico e proseguire l’impegno sociale e politico alla luce del sole. Se la situazione dovesse peggiorare ci attrezzeremo come fecero i membri dell’organizzazione durante l’occupazione sovietica. Siamo quasi certi che il progetto di far entrare nel governo talebani e Hekmatyar provocherà un nostro scioglimento e dovremo pensare a nuove forme di lotta.

Qual è la situazione sul fronte delle alleanze?

Purtroppo il fronte democratico risente tuttora della disgregazione prodotta dalla guerra civile e dall’occupazione occidentale, sulla scena politica non appaiono forze organizzate come invece noi abbiamo fatto dal 2003. Recentemente si è saputo della nascita d’un nuovo partito che non ha presentato alcuna registrazione ai ministeri competenti. Già circola voce che dietro ci sia addirittura l’Intelligence britannica. Calunnie? Non sappiamo, se fosse vero non ci stupirebbe. Poi ci sono personaggi come Bushar Doost che risulta un battitore libero. Ha carisma, però esprime una visione soggettivista della politica ben lontana dalla linea di Hambastagi.

Appoggi internazionali ne avete, ne cercate?

Sì, in Europa abbiamo rapporti coi tedeschi Die Linke, con l’italiana Sel, col Partito della sinistra svedese. Altrove col Partito liberale pakistano che sta anche procurandoci contatti con la sinistra indiana. Sono confronti utili per ampliare il nostro sentire, riescono ad allargare la visione geopolitica e organizzativa ma ci rendiamo conto che si tratta di rapporti ridotti. Tutto può comunque servire per far pressione sul nostro governo, com’è accaduto durante gli arresti dell’anno scorso.

E la grande incognita economica del Paese cosa vi fa dire?

Dall’occupazione statunitense ed europea a oggi quel che traspare drammaticamente è un impoverimento dell’Afghanistan, anno dopo anno crescente. Si vuole trasformare in consumatore un Paese che vede azzerate le proprie risorse dalla linea speculativa e corrotta di Karzai. Lui, i suoi famigli e gli alleati criminali che s’è trascinato nell’Esecutivo sicuramente si sono arricchiti e continuano a farlo sulle spalle di 30 milioni di afghani, arricchimenti accresciuti dagli aiuti umanitari gestiti da gruppi ristretti.

Aggiungiamoci le concessioni minerarie a compagnie estere, i prodotti di cui potremmo fare a meno perché ne siamo forniti, come l’acqua che acquistiamo a vantaggio del Pakistan e dell’Iran, stessa cosa per elettricità, materiale da costruzione e certi prodotti agricoli. È un’amministrazione dissennata a vantaggio di pochi e contro l’interesse della nazione. Del resto la situazione economica non può migliorare se quella politica non punta all’indipendenza e allo sviluppo.

 

 




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