Ha senso parlare di italianità?
Insistere sull’italianità basata su “tratti somatici” è un errore: se si può parlare di una presunta identità italiana, questa è frutto di secoli di contaminazioni culturali. Affronta il tema Silvano Fuso sul numero 5/2024 di Nessun Dogma.
Quando a scuola studiavo geografia, rimanevo sempre colpito dai confini di alcuni Stati dell’Africa, costituiti da segmenti rettilinei lunghi centinaia di chilometri (spesso si tratta di porzioni di meridiani o paralleli terrestri). Tutte le altre nazioni del mondo avevano confini molto irregolari, mentre quelli di alcuni Stati africani sembrava che fossero stati disegnati col righello.
Poiché ho sempre amato le forme geometriche regolari, mi chiedevo perché non tutti gli Stati del mondo avessero confini rettilinei (semplificando oltretutto la vita di noi scolari cui spesso veniva richiesto di disegnare a memoria alcune porzioni di mappe geografiche). Solo in seguito appresi che quei confini, che mi piacevano tanto, erano davvero stati tracciati col righello a tavolino. Gli autori furono gli Stati europei colonizzatori, riuniti nella Conferenza di Berlino del 1884-1885. Da quel giorno mi piacquero un po’ meno.
Grossomodo fino al XIX secolo, gli Stati europei colonizzarono soprattutto la fascia costiera del continente africano, costruendo infrastrutture ma dando vita, purtroppo, anche alla tratta degli schiavi e altre amenità. Successivamente, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, il colonialismo si trasformò in imperialismo che determinò la penetrazione anche nei territori interni africani con lo scopo di accaparrarsene le ricchezze. Per evitare di entrare in conflitto gli uni con gli altri, gli Stati europei si misero d’accordo per suddividersi le zone di dominio.
A tale scopo, dal novembre 1884 al febbraio 1885, si tenne la Conferenza di Berlino (voluta principalmente dal cancelliere tedesco Otto von Bismarck e dalla Francia) cui parteciparono 13 Paesi europei (tra cui l’Italia) e gli Stati Uniti. Vennero stabilite le zone di influenza e da qui derivarono i bizzarri confini rettilinei.
Oggi addirittura il 44% dei confini africani segue paralleli o meridiani. Un ulteriore 30% è stato stabilito, sempre a tavolino, con forme rettilinee o curvilinee. Ovviamente queste decisioni imposte dall’alto hanno causato non poche ripercussioni sulle povere popolazioni locali: è stato stimato che ben 177 gruppi etnici e aree culturali comuni vennero separati tra loro da un giorno all’altro.
I confini irregolari degli altri Stati del mondo, come la storia ci insegna, possono avere diverse origini. In taluni casi possono essere rappresentati da barriere naturali, quali catene montuose o corsi d’acqua, ma nella maggior parte dei casi sono frutto di conflitti armati, invasioni, occupazioni seguiti talvolta da accordi politici e diplomatici.
Comunque sia, i confini nazionali sono una creazione umana. Un tempo al mondo non esistevano confini e, ancora oggi, essi non esistono per le specie viventi non umane. Gli animali migratori, ad esempio, si spostano liberamente da un punto all’altro del globo, infischiandosene delle nostre carte geografiche (oltretutto variabili nel tempo).
Il filosofo francese Michel Foucault (1926-1984) definiva il termine confine come «dispositivo spaziale che regola e dispone il rapporto tra dentro e fuori, tra inclusione ed esclusione» [1]. Ne segue che i confini non sono solo geografici e politici ma anche psicologici e sociali.
Il concetto di confine è strettamente legato a quello di identità. Si tratta di un termine estremamente scivoloso, tant’è vero che l’antropologo Francesco Remotti (nato nel 1943) lo considera una “parola avvelenata” e scrive: «Identità è una parola avvelenata. Il veleno contenuto in questa parola così nitida e bella, così fiduciosamente condivisa, di uso pressoché universale, può essere tanto oppure poco, talvolta persino impercettibile e quasi innocuo.
Ma anche quando è impercettibile, la tossicità è presente in numerose idee che la parola contiene e, accumulandosi, può manifestarsi alla lunga, in maniera inattesa e imprevista. Perché e in che senso identità è una parola avvelenata? Semplicemente perché promette ciò che non c’è; perché ci illude su ciò che non siamo; perché fa passare per reale ciò che invece è una finzione o, al massimo, un’aspirazione. Diciamo allora che l’identità è un mito, un grande mito del nostro tempo» [2].
È bene aver presenti le considerazioni fin qui svolte per analizzare le recenti dichiarazioni dell’ex generale Roberto Vannacci (nato nel 1968) sul concetto di italianità. Ricordiamo che nel suo discusso libro Il mondo al contrario, l’ex generale, riferendosi alla pallavolista campionessa olimpica Paola Egonu (nata nel 1998) [3] aveva scritto: «Anche se è italiana di cittadinanza, è evidente che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità».
La campionessa aveva provveduto a querelare il generale, depositando a Bergamo l’atto, trasmesso successivamente a Lucca per competenza territoriale (l’ex militare risiede infatti a Viareggio).
Nel giugno 2024, il giudice per le indagini preliminari Alessandro Dal Torrione, accogliendo la richiesta del pubblico ministero, ha deciso l’archiviazione del procedimento. Nel provvedimento di archiviazione il magistrato scrive che la frase di Vannacci: «ben può essere valutata come impropria e inopportuna, ma non risulta tuttavia emergere un superamento del limite della continenza che possa dirsi indicativo della volontà, da parte dell’indagato, di offendere gratuitamente la reputazione di Egonu, di denigrarla, di sminuirne il valore, di portare un attacco indebito alla persona».
Successivamente, in un video postato sui social il giorno di ferragosto, l’ex generale è tornato sull’argomento, affermando: «Sollecitato a riguardo, ho ribadito quello che avevo scritto nel libro: ovvero che una persona, per non fare i soliti nomi perché è una cosa generalizzata, che ha i tratti somatici tipici del centrafrica e ha la pelle nera, non rappresenta la stragrande maggioranza degli italiani, che invece sono di pelle bianca e hanno i tratti somatici tipicamente caucasici».
Aggiungendo poi: «Quello che ho detto è vero? Sì, è vero. Non c’è dubbio. Gli italiani sono bianchi. C’è qualche italiano di seconda generazione, cioè di cittadinanza italiana, che ha la pelle nera, ma le cui origini sono dichiaratamente africane. Quindi quello che ho detto è vero. Seconda considerazione, quello che ho detto è strano? No, non è strano. Tutti lo sanno. Chiedetelo in giro, se una persona nera rappresenta la maggior parte degli italiani. Vi diranno di no. È un’offesa oppure un’istigazione all’odio dire quello che ho detto? No, non lo è. Nella maniera più assoluta. E non solo lo dico io e lo dice la maggior parte degli italiani, ma si sono pronunciati anche dei giudici al riguardo. Quindi anche su questo argomento possiamo mettere un punto finale».
L’ex generale fa continuamente riferimento al concetto di italianità. Ma che significato possiamo attribuire a tale termine? Il vocabolario della lingua italiana Treccani fornisce la seguente definizione: «italianità s. f. [der. di italiano]. – 1. L’essere conforme a ciò che si considera peculiarmente italiano o proprio degli Italiani nella lingua, nell’indole, nel costume, nella cultura, nella civiltà, e sim.: i. di un modo di pensare; scarsa i. di un costrutto sintattico. 2. Più com., l’essere e il sentirsi italiano; appartenenza alla civiltà, alla storia, alla cultura e alla lingua italiana, e soprattutto la coscienza di questa appartenenza: i. di sentimenti; l’i., e i sentimenti di i., di Zara, Trento e Trieste durante la dominazione asburgica».
Come si può leggere, non c’è alcun riferimento ai tratti somatici. Si parla invece di lingua, indole, costume, cultura e civiltà. Tutte cose che nulla hanno a che fare con i tratti somatici e/o la genetica e che rappresentano invece aspetti culturali che chiunque può acquisire.
Cercare di definire l’italianità in base ai tratti somatici, e quindi alle caratteristiche genetiche, è prima di tutto un grossolano abbaglio. La popolazione italiana è infatti figlia dell’incontro di numerosi popoli e basta esaminare la storia del nostro Paese per rendersene conto.
Se andiamo alle origini, già sconfiniamo nel mito: quello di Enea fuggito da Troia, che di italianità (nel senso di Vannacci) appare averne ben poca. Gli etruschi poi provenivano probabilmente dalla steppa euroasiatica. Alla popolazione italiana hanno poi contribuito i fenici, provenienti dall’attuale Libano e dalle zone costiere della Siria, e i cartaginesi del nord Africa.
Ricordiamo, en passant, che Roma ebbe persino un sovrano nativo dell’Africa: l’imperatore Settimio Severo (146-211), di origine punico/berbera e di pelle scura. L’Italia del sud costituiva la Magna Grecia mentre al nord le popolazioni erano in gran parte celtiche, mischiate ad altre di origini pre-indoeuropee come i camuni. Le invasioni barbariche di ostrogoti e longobardi contribuirono ulteriormente a rendere geneticamente variegati gli abitanti della nostra penisola.
Insomma, la presunta italianità è frutto di contaminazioni durate millenni e quindi ha davvero poco senso parlare di tratti somatici italiani. Teniamo inoltre conto che tutta l’umanità (e quindi anche gli italiani) provengono dall’Africa. Come scrive il genetista Guido Barbujani (nato nel 1955): «‘Gli africani siamo noi’ non è uno di quei titoli che si tirano fuori per impressionare gli ingenui con un paradosso, ma è davvero la sintesi, la più onesta possibile, delle nostre frammentarie conoscenze sulle origini dell’uomo e sulla nostra vicenda evolutiva» [4].
Quindi, se proprio volessimo parlare di tratti somatici caratteristici della nostra originaria natura, dovremmo indicare quelli di Paola Egonu e non quelli vagheggiati da Vannacci!
Insistere sul mito dell’italianità, oltre a essere privo di fondamento storico e scientifico, non può che alimentare sentimenti razzisti e di diffidenza nei confronti di chiunque presenti caratteristiche diverse da quelle che si presuppongono tipiche e “normali” dei presunti italiani. Purtroppo nel nostro Paese non mancano tristi esempi sia legati al passato, sia, ahimè, di strettissima attualità.
Da questo punto di vista appaiono quanto mai inquietanti le parole di Vannacci che in un’intervista ha addirittura proposto di introdurre l’insegnamento dell’italianità nelle scuole affermando: «Noi siamo italiani, dobbiamo preservare la nostra identità, in migliaia sono morti sul Carso per tramandarcela. Dobbiamo insegnare le radici italiane nelle scuole. In una classe tutta di stranieri è difficile insegnare l’italianità» [5].
Per concludere, un’ultima considerazione. Per gran parte della sua storia l’umanità ha avuto grosse difficoltà di spostamento e di comunicazione a lunga distanza. Allora il concetto di confine e, di conseguenza, quello di identità nazionale potevano anche avere un senso. Oggi l’umanità ha la capacità di spostarsi rapidamente da un punto all’altro della Terra e la comunicazione, anche tra le zone più remote, è praticamente istantanea.
La popolazione mondiale, quindi, assume sempre più le caratteristiche di un unicum fortemente interconnesso. Ha quindi senso continuare a parlare di confini e di identità nazionale, compresa la fantomatica italianità dell’ex generale Vannacci? Non sarebbe meglio parlare semplicemente di umanità o forse di terrestri? Le esplorazioni spaziali infatti allargano ulteriormente i nostri orizzonti e chissà che un domani non verremo in contatto con qualche civiltà extraterrestre.
In ogni caso, nell’attesa, consigliamo all’ex generale Vannacci di ascoltare la celebre canzone di Giorgio Gaber (1939-2003) e Sandro Luporini (nato nel 1930) Io non mi sento italiano (uscita postuma nel 2003) e, in particolare, la seguente strofa:
«Mi scusi Presidente
Non è per colpa mia
Ma questa nostra Patria
Non so che cosa sia
Può darsi che mi sbagli
Che sia una bella idea
Ma temo che diventi
Una brutta poesia»
Silvano Fuso
Approfondimenti
- M. Foucault, Follia e psichiatria. Detti e scritti (1957-1984), Raffaello Cortina, Milano 2006.
- Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza Bari 2010 (p. XII).
- Ricordiamo che l’atleta è nata a Cittadella, provincia di Padova, da genitori nigeriani.
- G. Barbujani, Gli africani siamo noi. Alle origini dell’uomo, Laterza, Roma Bari 2016.
- A. Bravetti, Vannacci: «In Europa da protagonista, ma non so se ho i requisiti», La Stampa, 4 aprile 2024.
Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.