martedì 9 ottobre 2018 - Edizioni Omissis

Grandi Opere: quanto sono democratiche?

Il rapporto tra politica e cemento non nasce con la Legge obiettivo del 2001: già nel 1963, mentre viene bloccata la legge urbanistica del ministro Sullo, il regista Francesco Rosi ne fa il centro della sua denuncia sulla (odierna) speculazione edilizia passata sotto il titolo di “Le mani sulla città”.

Autostrade ad personam

Un rapporto che ha da sempre al centro le autostrade, dove peraltro l'Italia ha bruciato 1,9 miliardi di denaro pubblico per tre progetti (BreBeMi, Tangenziale esterna e Pedemontana Lombarda) che non hanno raggiunto i livello di traffico prestabiliti: prima dei Benetton – che entrano «a costo zero» nel settore grazie alle privatizzazioni del 1999 – la storia della Repubblica ricorda:

  • la “Curva Fanfani” prima del casello di Arezzo, che per volontà dell'ex ministro democristiano porta l'Autostrada del Sole nella sua città natale (e feudo elettorale) allontanandola da una Siena all'epoca guidata dal Pci;
  • la “PiRuBi”, l'autostrada A31 tra Trento, Vicenza e Rovigo il cui tracciato viene deciso dagli allora ministri Dc Flaminio Piccoli, Mariano Rumor e Antonio Bisaglia;
  • la strada statale Cassia Veientana – oggi strada provinciale – che, pare, servisse per comodità dell'ex Presidente della Repubblica Giovanni Leone;
  • il passaggio da Avellino e non da Benevento dell'autostrada A16 per volontà del ministro Sullo;
  • il finanziamento da un milione di euro (2008) per l'aeroporto di Albenga, soprattutto per il volo Albenga-Roma Fiumicino spesso usato dall'allora ministro Claudio Scaiola, cittadino della vicina Imperia.
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La lista potrebbe allungarsi con i prossimi esecutivi, ma è certo come dalle Alpi alla Sicilia le grandi opere non tengano contro degli impatti ambientali, sanitari né della semplice volontà popolare, che siano fatte pro domo di qualche ministro o meno. È così che si sviluppano le “tragedie” dei ponti, delle scuole o dei palazzi che crollano senza motivo apparente.

La legge come “camera di compensazione”

“Tragedie” evitabili se l'Italia non avesse avuto per 15 anni una legge sulle grandi opere «criminogena»[1]: la Legge obiettivo 443/2001, voluta dall'allora governo Berlusconi per semplificare l'iter di progettazione, autorizzazione e realizzazione delle opere pubbliche e che prevede la figura del “general contractor” o una procedura semplificata per la Valutazione di Impatto Ambientale. Fino alla sua cancellazione (2015) la legge è diventata un contenitore di opere tanto grandi quanto non finanziabili: 418 opere – di cui realizzato solo il 4% tra 2001 e 2011 – per un costo totale di 362 miliardi di euro, da raccogliere in ampia parte coinvolgendo imprese private. Per il finanziamento pubblico, denuncia il professor Mauro Cappello l'Italia ha rinunciato a 20 miliardi di euro di fondi europei per il periodo 2014-2020, di cui 9 miliardi di fondi 2007-2013 mai impiegati.

Negli anni la Legge obiettivo è diventata una “camera di compensazione” tra politica e grandi imprese del cemento: quel “blocco politico-industriale-finanziario” i cui riflessi e interessi oltrepassano i confini nazionali, ne sono esempio le controverse dighe Gibe in Etiopia (Salini-Impregilo) o la diga di Mosul in Iraq (gruppo Trevi) addirittura difesa da un contingente militare italiano. Ma la Legge obiettivo ha anche permesso di presentare progetti senza piani economico-finanziari (Autostrada Tirrenica) né analisi costi-benefici (Autostrada Tirreno-Brennero, TiBre). Grazie all'introduzione del “project financing”, inoltre, la legge ha permesso di scaricare il rischio d'impresa sui contribuenti, come sempre più dimostrano le indagini giudiziarie.

I conti sballati con il project financing

Istituita con la legge Merloni-ter (n.415/1998), la "finanza di progetto" ("project financing", in inglese) prevede l'assegnazione dei lavori di realizzazione di un opera pubblica ad un'impresa – o, dati i costi, un consorzio di imprese – che si accolla le spese in cambio di entrate economiche future (affitto dell'infrastruttura, svolgimento di servizi accessori come la pulizia, etc.) affidati di solito con la formula dell'"evidenza pubblica". È un modo di procedere che incide pesantemente sulle casse dello Stato ma che, nel tempo, ha permesso la costruzione di ospedali (Padova, Bologna), tribunali (Rovigo) e sedi comunali (Bologna). Riprendendo da un articolo del 2015 di Giorgio Meletti per il Fatto Quotidiano:

  • costruzione dell'ospedale di Nuoro: investimento da 45 milioni di euro ripagato ai privati – tra affitto e costi accessori – 800 milioni;
  • centrale tecnologica dell'ospedale Sant'Orsola di Bologna: costo 30 milioni, di cui 6 coperti da fondi pubblici, ripagato ai privati con un contratto finale dal valore di 400 milioni;
  • nuova sede del Comune di Bologna: costo ufficiale 70 milioni di euro, ripagato ai privati con 250 milioni.

«Trattandosi di contratti per la fornitura dei servizi», evidenzia Meletti, «non risultano né tra gli investimenti né tra i debiti. Praticamente non lasciano traccia nei bilanci pubblici». Un sistema che comporta

un indebitamento implicito, sotterraneo o nascosto di circa 200 miliardi di euro. Si tratterebbe del 10 per cento in più rispetto al dato ufficiale del debito italiano

Project bond: dai subprime tossici alle “grandi opere tossiche”?

Dal 2012, con il Regolamento 670/2012 l'Unione Europea ha introdotto anche i “project bond”: obbligazioni di scopo emesse da un'impresa per finanziare la realizzazione di infrastrutture o servizi di pubblica utilità e destinati ad investitori finanziari come fondi sovrani o pensionistici. L'obbligazione – di fatto una raccolta di risparmio a lungo termine – prevede la definizione di una garanzia (swap, in gergo finanziario), mentre il rimborso dipende esclusivamente dai flussi di cassa che il progetto stesso è in grado di assicurare. Il debito generato è diviso in tranches in base al livello di rischiosità – aumentando il rendimento del bond e diminuendone il costo. La parte più rischiosa dell'investimento rimane a carico della Banca Europea per gli Investimenti (Bei) attraverso la “2020 Project Bond Initiative”, mentre agenzie di rating come Fitch lanciano l'allarme sulla scarsa qualità di questi prodotti finanziari. Il progetto Castor in Spagna, ad oggi l'unico realizzato tramite project bond, si è rivelato un flop, e oggi pesa sui cittadini spagnoli per 1,3 miliardi di euro. La domanda è d'obbligo: cosa accadrà quando, come nel caso dei mutui subprime che hanno generato la crisi finanziaria del 2008, si inizierà davvero a speculare con questi titoli? Si passerà dai “titoli tossici” alle “grandi opere tossiche”?

Per approfondire:

Le grandi opere sono antidemocratiche?

Nonostante l'abrogazione, il governo Renzi ha comunque mantenuto una parte sostanziale della Legge obiettivo nel decreto “Sblocca Italia”:

su 45 articoli, ben 11 disposizioni, un quarto delle norme contenute nel decreto, vanno verso l'indebolimento delle tutele e le valutazioni ambientali e a dare una mano libera agli interessi speculativi sui beni comuni. Tutto con il rischio che ai danni ambientali si aggiungano, come segnalato dal presidente dell'Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone, i rischi relativi ad un aumento dell'illegalità

Riporta una specifica analisi del WWF a cui fa eco una sentenza del Tribunale per i diritti dei popoli sulla Tav nella quale i giudici denunciano come con tale decreto

[si] formalizza il principio secondo il quale non è necessario consultare le popolazioni interessate in caso di opere che trasformano il territorio

Wwf ed Anac denunciano concessioni senza gara, deroghe alla pianificazione urbanistica o alle valutazioni ambientali ed economiche in favore della speculazione edilizia, di riciclaggio di denaro – e autoriciclaggio – o deroghe al codice dei contratti, ricorso al “business” dell'emergenza. «Rischi» che significano militarizzare un territorio, sul quale costruire grandi opere imposte senza il ricorso alla consultazione pubblica – né dei cittadini, né delle amministrazioni locali – o ascoltando il parere dei «soli comuni interessati alla realizzazione dell'opera», come nel caso della Tav, in piena violazione della Convenzione di Aahrus; «rischi» che significano imporre certe opere a discapito del diritto alla salute, alla libertà di circolazione, riunione ed espressione del pensiero, opere che spesso sono approvate per mero calcolo corruttivo. «Rischi» che portano i governi «al servizio dei grandi interessi economici e finanziari, nazionali e sovranazionali e delle loro istituzioni»[2] e dunque incostituzionali. «Rischi» che, in ultima analisi, significano una sola cosa: chiudere spazi all'esercizio della democrazia e, di conseguenza, contro la Costituzione,

L'interesse “antispeculazione” del Nimby

Libertà, diritti, democrazia. Tutto racchiuso in un rapporto di (dis)equilibrio tra interessi: quello speculativo in cui si muovono politica, imprenditoria, criminalità, repressione e in molti casi propaganda contro l'interesse generale, per dirla con il diritto, a cui si appellano le comunità monitoranti, i comitati del “no” spesso tacciati di bloccare l'economia del Paese (secondo la teoria “Nimby”, in inglese) ma spesso uniche sentinelle a difesa del vero interesse generale: quello cioè che tutela la salute dei cittadini e l'ambiente a discapito della speculazione e di quell'”interesse strategico nazionale” che permette l'apposizione del Segreto di Stato, un procedimento che, almeno per quanto riguarda le autostrade, senza il crollo del ponte Morandi a Genova (14 agosto 2018) probabilmente non sarebbe mai entrato nell'interesse del sistema mediatico.

Fino al gennaio 2018, infatti, i contratti di concessione – compresi dati tecnici come la remunerazione del capitale, i piani economico-finanziari o la descrizione delle opere da realizzare – sono segretati e dunque non accessibili all'opinione pubblica e detenuti dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Mit).

È però una full disclosure” a metà: il governo Renzi decide infatti di non rendere accessibili informazioni come gli aspetti tecnici e finanziari di una grande opera, rendendo di fatto impossibile capirne realmente l'utilità “anti-speculativa” per la cittadinanza.

La “moneta” delle grandi opere

Chi decide, e in base a quali parametri, l'utilità di una grande opera? Il governo Renzi – attraverso il ministro Delrio – ha definito la necessità di opere «snelle, utili e condivise», passando dalle 418 opere della Legge obiettivo 2001 (costi stimati: 362 miliardi di euro) alle 25 opere “prioritarie”, dal costo stimato di 90 miliardi, cui si aggiungono altri 50 miliardi per i contratti già firmati. I progetti sono contenuti in un vero e proprio “documento strategico” che definisce le infrastrutture da costruire fino al 2030: strade, ferrovie, porti, interventi in città e aree urbane contenute nell'Allegato Infrastrutture del Documento di economia e finanza 2017 (Def 2017) e che tra 2015 e 2016 hanno registrato un +8% di investimenti, per una media annua di 12,8 miliardi di euro. Bisognerà capire se il trend rimarrà positivo anche sotto il governo Conte e, soprattutto, con l'introduzione della flat tax che toglierà alle casse dello stato circa 70 di entrate all'anno.

Cosa succede, però, se un ministro decide di usare una di quelle opere per minacciare la tenuta del governo? È quello che succede già nel 2008, quando Antonio Di Pietro, all'epoca a capo del Mit, minaccia di far cadere il governo Prodi perché contrario alla soppressione della Stretto di Messina Spa (SDM Spa), oggi in liquidazione, a cui vengono affidati i lavori per l'omonimo e mai realizzato ponte.

Le troppe poltrone dei direttori

Secondo l'ex magistrato questa decisione porterebbe l'Italia a pagare una penale di 600 milioni di euro, che sale a circa un miliardo quando con il governo Renzi, Salini-Impregilo – principale appaltatrice del Ponte nel consorzio Eurolink, general contractor dell'opera – pretende l'apertura dei cantieri per costruire il Ponte sullo Stretto di Messina, archetipo delle grandi opere inutili. La vicenda – da più parti definita come vero e proprio «ricatto» ed emblematica di un certo tipo di rapporto politica-grandi gruppi economici, sia nazionali che internazionali – è interessante anche perché permette di fare luce sulla figura di Pietro Ciucci, nel 2009 presidente Anas, delegato della Stretto di Messina Spa e commissario governativo per la realizzazoine del ponte.

Una situazione identica a quella che, per la Brescia-Bergamo-Milano – BreBeMi, nota per essere non solo inutile ma anche destinataria di rifiuti tossici – vede Francesco Bettoni presidente del progetto e nello stesso tempo consigliere della finanziatrice Banco di Brescia. E ancora: Roberto Ferrazza, chiamato a capo della Commissione d'inchiesta sul crollo del ponte Morandi dal ministro Toninelli nonostante nello scorso febbraio sia stato firmatario – da presidente del comitato tecnico amministrativo – di un progetto per il rinforzo del ponte che, evidenzia Fabrizio Gatti, è pieno di «incongruenze» e non prevede riduzioni di traffico nonostante sia stato presentato come «metodologicamente ineccepibile». Ancora più interessante è Barbara Marinali, direttrice generale (2009-2013) della Direzione generale per le Infrastrutture stradali, che nel 2009 una «manina della Presidenza del Consiglio» trasforma da dipendente dell'Autorità Garante della concorrenza in dirigente della stessa Autorità. Una carica che le varrà, senza averne titoli, il passaggio nella DGIA e poi nell'Autorità dei trasporti[3].

Penali (fasulle)&Propaganda

Ma le penali – quella pubblicizzata da Di Pietro tanto quanto quella sulla revoca delle concessioni autostradali – non esistono: servono come mera propaganda per continuare a drenare soldi pubblici verso i privati tanto nel settore delle grandi opere quanto, ad esempio, in quello dei “grandi sprechi militari”: esempio classico è l'acquisto dei caccia F-35 nascosto dietro la propaganda antimigrante, per i quali il governo Conte continuerà a pagare 150 milioni di euro a velivolo. Denaro che, evidenzia PeaceLink, viene sottratto «alla bonifica di tutte le città vittime dell'inqinamento».

Lo stesso governo Renzi, fautore della politica di opere «snelle, utili e condivise» - e di conseguenza volute anche dalle comunità locali – attraverso il Dpr 146/2016 ha però definito che, in caso l'iter burocratico sull'opera superi i 45 giorni, la decisione spetti in via esclusiva al presidente del Consiglio e, di conseguenza, alla sua “sensibilità” all'attività lobbistica delle grandi imprese, dei clan mafiosi o delle tangenti. Una decisione che il governo Conte – nella sua componente M5S eletto anche grazie ai voti di quei movimenti del no che ora rinnega – non sembra affatto voler cambiare.

[2 - Continua]

Note:

  1. La definizione è del presidente dell'Associazione Nazionale Anticorruzione (Anac) Raffaele Cantone, ma che la Legge obiettivo 443/2001 sia «criminogena» lo conferma l'attività investigative di varie procure italiane;
  2. “Grandi opere e democrazia: il caso del Tav Torino-Lione” - Alessandra Algostino, in "Grandi opere contro democrazia" - Roberto Cuda (a cura di), Edizioni Ambiente, Milano, 2017, p.39;
  3. “Chi sapeva ha taciuto” - Fabrizio Gatti, l'Espresso, 26 agosto 2018

Andrea Intonti



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