venerdì 17 dicembre 2021 - Osservatorio Globalizzazione

Giordania: il futuro incerto dei rifugiati siriani

A dieci anni dall’inizio del conflitto, la Siria è ancora immersa nel buio. Con più di 350.000 morti[1], 6.8 milioni di sfollati interni e 6.5 all’estero, è considerato dall’Onu tra i più grandi disastri umanitari dopo la Seconda Guerra Mondiale. 

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La maggior parte dei rifugiati si trova in Libano, in Giordania e in Turchia, che da sola ospita 3.6 milioni di siriani. In Europa, la Germania è il paese che di gran lunga ha accolto più rifugiati negli ultimi anni, per un totale di 800.000 rifugiati.

Secondo la Commissione internazionale d’inchiesta sulla Siria al momento non sono presenti le condizioni di sicurezza sufficienti per il ritorno. D’altra parte, la recente ripresa del dialogo tra Damasco e le potenze regionali, in primis Amman e Abu Dhabi, lascia intendere il crescente desiderio di normalizzazione e riabilitazione del governo siriano. Di rifugiati però, ancora non si è parlato.

La ripresa del dialogo

La telefonata ufficiale il 4 ottobre tra il Presidente Bashar al-Assad e Re Abdullah II del Regno Hascemita di Giordania è la prima dall’inizio del conflitto e rappresenta un passo significativo verso la ripresa della cooperazione tra i due paesi.

Per quanto sorprendente sia stato l’annuncio, il terreno era stato preparato da tempo con una serie di iniziative quali l’incontro il 19 settembre tra il ministro della Difesa siriano Ali Ayoub e il capo dell’esercito giordano Yousef Huneiti, la ripresa dei voli della Royal Jordan tra Damasco e Amman, la riapertura del valico di frontiera Nasib-Jaber e più recentemente della zona franca adiacente che era rimasta chiusa per gli ultimi 6 anni.

Chiuso dal 2012 sino al 2018, il valico di frontiera Nasib-Jaber negli ultimi anni alternava periodi di apertura e chiusura in concomitanza con l’aumento delle tensioni tra i ribelli e le truppe russo-siriane nei governatorati di Daraa e Quneitra. La ripresa degli scontri nel giugno del 2018 causò secondo l’UNHCR lo sfollamento di più di 300.000 siriani, 60.000 dei quali si accamparono nelle vicinanze del valico Nasib-Jaber. La Giordania in quell’occasione si disse non disponibile all’accoglienza di ulteriori rifugiati e consentì l’accesso ai soli bisognosi di assistenza medica, sotto la pressione dell’opinione pubblica giordana che chiedeva il sostegno al popolo siriano.

La riapertura rappresenta una prima ripresa degli scambi commerciali che erano stati indeboliti dall’introduzione del Caesar Act, le sanzioni imposte dagli Stati Uniti contro il regime siriano entrate in vigore il 17 giugno 2020.

A seguito della visita del Re Abdullah II a Washington lo scorso luglio, gli Stati Uniti avrebbero acconsentito ad una parziale sospensione del Caesar Act per la Giordania anche in vista dell’importante progetto del gasdotto che vede coinvolti Egitto, Giordania, Siria per fornire energia al Libano, ripiombato ancora una volta in una gravissima crisi economica. Secondo il giornalista Osama Al Sharif questa manovra potrebbe essere un tentativo americano indiretto – attraverso il supporto delle potenze regionali – di limitare l’influenza iraniana in Libano e in Siria.

Un milione e trecentomila

Nonostante le importanti novità, la questione dei rifugiati rimane ancora un tabù sul quale nessuno dei due leader si è espresso chiaramente.

Secondo i dati forniti dal Ministero degli Interni, nel territorio giordano si trovano al momento 1.3 milioni di rifugiati siriani, l’80% dei quali vive nei centri urbani di Amman, Irbid e Mafraq. Il restante 20% risiede nei campi di Zaatari e Azraq, situati nel Nord Est del paese. Degli 1.3 milioni, solo 672.804 sono registrati dall’UNHCR.

Molte delle famiglie siriane si trovano sotto la soglia di povertà, costrette a vivere in condizioni degradanti in piccoli appartamenti talvolta in condivisione con altre famiglie. Un terzo dei rifugiati siriani registrati tra i 5 e i 17 anni non è iscritto a scuola e il tasso di disoccupazione tra i giovani ha toccato quest’anno il 48%. Per i rifugiati l’ingresso nel mondo del lavoro è complicato da lunghe trafile per ottenere specifici documenti e dall’inaccessibilità di molte categorie professionali a chi non possiede la cittadinanza giordana. La maggior parte trova dunque opportunità sporadiche nell’economia informale, con condizioni di lavoro difficili e salari molto bassi. Insieme al caro prezzo degli affitti e la mancanza di lavoro, il tema della sicurezza idrica e alimentare e l’accesso alle cure mediche sono tra le prime preoccupazioni dei rifugiati.

La questione dell’approvvigionamento idrico è particolarmente importante, tenendo conto che la Giordania è il secondo paese con meno acqua al mondo. La disponibilità idrica pro-capite è di soli 100m³/anno ben inferiore alla soglia dei 500m³/anno che rappresenta il livello critico. Attualmente l’acqua viene distribuita una volta alla settimana o addirittura una volta ogni due in alcune aree. L’aumento della pressione demografica ha portato ad una crescente tensione sociale per l’accesso all’acqua, e con la crisi climatica annunciata potrebbe diventare una seria minaccia alla sicurezza nazionale.

Il ritorno in Siria

Nonostante le numerose difficoltà affrontate dai rifugiati siriani in Giordania, l’opzione del ritorno rimane ancora molto impopolare. Secondo un recente report dell’UNHCR, se il 75% dei rifugiati spera di poter tornare in Siria un giorno, la schiacciante maggioranza non prevede di trasferirsi in un futuro prossimo. Tra i motivi principali la preoccupazione per la propria sicurezza, la mancanza di servizi e beni di prima necessità e l’obbligo del servizio militare per i giovani.

Tali preoccupazioni non sembrano essere infondate come testimoniano Human Rights Watch e Amnesty International. In un recente dossier pubblicato dal HRW su 65 interviste condotte, sono stati documentati 21 arresti, 17 sparizioni, 13 casi di tortura, cinque uccisioni extragiudiziali, tre rapimenti e un caso di violenza sessuale. “Chi torna in Siria è sottoposto ad un grado allarmante di violenza. È evidente che la Siria non è un luogo sicuro cui fare ritorno” sono le parole di Nadia Harman, ricercatrice di HRW.

Nello specifico caso della Giordania inoltre, non sono chiare le modalità con cui il ritorno avverrebbe e i rifugiati che decidono di percorrere questa strada potrebbero non riuscire a rientrare in Giordania almeno per i primi 3-5 anni.

Bashar al-Assad lo scorso anno aveva esortato i cittadini a fare ritorno in Siria, e per alcuni paesi come la Danimarca il governatorato di Damasco è da considerare sufficientemente sicuro per sospendere i permessi di soggiorno e rimpatriare i rifugiati siriani. Finora, un totale di 620 rifugiati hanno perso il loro permesso di soggiorno, 90 di questi in seconda istanza.

Per quanto riguarda la Giordania, quest’ultima non ha mai sottoscritto né la Convenzione sui rifugiati del 1951, né il Protocollo del 1967, né la Convenzione del 1961 sulla riduzione dell’apolidia. Il governo ha invece sottoscritto un Memorandum of Understanding con l’UNHCR nel 1998 in cui si afferma il principio di non respingimento, ovvero l’obbligo di ‘non trasferimento, diretto o indiretto, di un rifugiato in un luogo nel quale la sua vita o la sua libertà sarebbe in pericolo a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche’.

Nonostante ciò, The New Humanitarian riporta insieme a HRW che il governo giordano avrebbe rimpatriato alcuni rifugiati siriani attraverso Nassib-Jaber o li avrebbe spostati nel campo siriano di Rukban al triangolo di confine tra Siria, Iraq e Giordania. Attualmente sono quasi 11.000 i civili siriani sfollati nel campo di Rukban. Le condizioni del campo secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani sono disperate: il personale medico è quasi assente e mancano scuole o centri educativi che consentano ai bambini di accedere all’istruzione primaria.

In conclusione, se dunque il futuro ritorno in Siria appare al momento impraticabile e lontano, il presente in Giordania, come in altre nazioni ospitanti, è altrettanto compromesso. Ma l’elefante nella stanza degli accordi diplomatici non potrà essere ignorato per sempre e prima o poi i paesi coinvolti e più in generale la comunità internazionale dovranno assumersi la responsabilità di trovare una soluzione e restituire un futuro ai milioni di siriani sfollati interni o che da dieci anni sono rifugiati all’estero.

Riferimenti

  • Carlorecchio, F. (2021, November 2). Siria, non è un Paese sicuro: chi torna a casa è perseguitato e fa la fame, ma chi è fuggito è spinto a rimpatriare. la Repubblica.

[1] Si tratta di una stima conservativa diffusa dall’OHCHR. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani sarebbero 606.000 i morti dall’inizio del conflitto.

 




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