lunedì 29 novembre 2021 - Osservatorio Globalizzazione

Giordania, il complicato rapporto tra risorse e rifugiati

Della Giordania si parla sempre molto poco nonostante sia una pedina centrale sullo scacchiere degli equilibri geopolitici in Medio Oriente.

 

Negli ultimi anni ha giocato un ruolo fondamentale nella gestione dei rifugiati siriani, con tutta una serie di conseguenze che ne sono derivate, tra cui un aumento significativo della popolazione che oggi inquieta l’opinione pubblica e la classe politica.

Se la crescita della popolazione generata dall’afflusso di rifugiati rappresenta una vera sfida per le scarse risorse naturali del paese, è anche importante riconoscere la responsabilità del governo nella gestione di queste ultime.

Per affrontare la sfida della crisi ambientale è necessaria una visione strategica globale che unisca piuttosto che dividere. Il delicato equilibrio interno potrebbe non reggere all’aumento delle tensioni sociali mettendo a repentaglio la sicurezza nazionale.

Rifugiati siriani di Daraa giocano tra i rifiuti nella periferia di Irbid (2021), foto dell’autrice

 

Una popolazione in aumento

Nel 1948, anno della Nakba e proclamazione dello stato di Israele, più di 750.000 Palestinesi lasciarono la Palestina per cercare rifugio nella Striscia di Gaza, in Libano, in Siria e in Giordania. Ne seguirono successive ondate, nel 1967 la più importante in occasione della guerra dei Sei Giorni.

Per ragioni di carattere storico e politico, la cifra esatta non è nota, ma circa 2 milioni dei residenti in Giordania hanno origini palestinesi. Ancora oggi sono presenti sul territorio circa

10 campi palestinesi sotto la direzione dell’UNRWA. Costruiti nel 1948 e 1967 come

soluzione momentanea all’emorragia delle guerre arabo-israeliane, ormai sono quasi completamente integrati nel tessuto urbano locale.

I successivi flussi migratori più importanti si osservarono in concomitanza della guerra del Golfo negli anni ‘90, la guerra in Iraq del 2003, la guerra civile in Siria nel 2011 e la guerra in Yemen del 2015.

La popolazione rifugiata siriana in Giordania è di circa 670.000, di cui l’80% risiede nei centri urbani e il restante 20% nei campi profughi di Zaatari e Azraq.

Sul territorio sono presenti anche minoranze somale e sudanesi, meno rappresentate e spesso escluse dai programmi di aiuto umanitario, ed infine lavoratori irregolari egiziani e del sud-est asiatico che alimentano le fila dell’economia informale, principalmente nel settore agricolo e tessile.

Secondo il Phoenix Center for Economic and Informatics Studies, se i lavoratori egiziani in regola sono circa 200.000, il vero numero si aggira intorno agli 800.000, circa 4 volte tanto.

Al momento dell’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1946 la popolazione era di 433.000 persone, e da allora l’aumento e stato costante, raggiungendo i 895.000 nel 1960; 1,67 milioni nel 1970; 2,29 milioni nel 1980; 3,4 milioni nel 1990; 4,8 milioni nel 2000 e 6,1 milioni nel 2010. Nel 2019 la popolazione della Giordania ha raggiunto il tetto dei 10 milioni, un numero estremamente elevato che rappresenta una sfida cruciale per le limitate risorse naturali di cui il paese dispone.

Le risorse

La Giordania è tra i 10 paesi al mondo con minor disponibilità di risorse idriche. Le più importanti, rappresentate dal fiume Yarmouk e il fiume Giordano, sono in condivisione con le potenze limitrofe Israele e Siria e dunque sottoposte ad una politica di spartizione sensibile ai delicati equilibri regionali.

Similmente anche la questione del Mar Morto è all’origine di importanti tensioni: lo sfruttamento intensivo delle acque del fiume Giordano da parte di Israele insieme all’attività estrattiva di sodio e potassio ha fortemente contribuito alla diminuzione del livello dell’acqua. Questo tesoro unico è dunque in pericolo: negli ultimi cinquant’anni, ha perso il 28% della sua profondità e un terzo della sua superficie. Il suo livello scende inesorabilmente, con una media di 1,45 metri all’anno.

A aggravare ulteriormente la situazione, negli ultimi anni si è osservato un progressivo calo delle precipitazioni e una diminuzione dei livelli delle acque sotterranee.

La disponibilità idrica pro capite della Giordania è diminuita da 3600 m³/anno nel 1946 a 135 m³/anno nel presente, mettendo la nazione molto al di sotto del livello di 500 m³/anno di “scarsità assoluta”.

Per quanto riguarda l’agricoltura, solo il 4% delle terre è coltivabile. Questo dato è tanto più problematico se si considera che da solo il settore agricolo consuma il 50% dell’acqua disponibile, e che la sua contribuzione nel PIL è solo del 4%. L’urbanizzazione, la degradazione del suolo, la desertificazione, l’aridità e la siccità, l’uso massiccio di pesticidi sono tutti fattori che hanno contribuito a ridurre il rendimento dei suoli agricoli e a minacciare la sicurezza alimentare del paese. Come conseguenza, la popolazione rurale della valle del Giordano e dei governatorati del nord si è drasticamente impoverita e molti hanno dovuto migrare verso i centri urbani.

Infine, sul piano energetico la Giordania è tra i paesi con il tasso più alto di dipendenza da fonti energetiche straniere, con il 94% del fabbisogno energetico del paese che proviene da petrolio e gas naturale importati dai vicini paesi del Medio Oriente. Questo lascia la Giordania vulnerabile alle fluttuazioni dei mercati e degli equilibri geopolitici. Nel 2011 i ripetuti attacchi al gasdotto egiziano, costrinsero la Giordania a soddisfare il suo fabbisogno energetico con combustibili fossili più costosi, come il diesel, con un rincaro dei prezzi notevole.

Rifugiati e risorse, un rapporto causa effetto o capro espiatorio?

Dall’equazione tra risorse e demografia, la Giordania ne esce profondamente indebolita. A rincarare la dose, la pandemia di Covid-19 ha profondamente segnato l’economia del paese che si è contratta del 1,6% e il tasso di disoccupazione ha raggiunto i massimi storici con circa il 50% dei giovani tra i 20 e i 24 anni disoccupati.

La popolazione è esausta e il malcontento cresce. In questo contesto, la narrazione dei rifugiati come causa del collasso economico del paese ha trovato un terreno fertile. Nei centri urbani più colpiti come Mafraq e Ramtha l’iniziale accettazione dei rifugiati si è gradualmente trasformata in un progressivo malcontento che divide l’opinione pubblica.

Quando nel giugno 2018 l’offensiva siro-russa rianimo’ il conflitto nei governatorati di Daraa e Quneitra, il governo giordano negò l’accesso ai 60.000 siriani che si erano accampati sul confine. In moltissimi si opposero allora alla decisione del governo, che si vide costretto sotto la pressione dell’opinione pubblica a consentire l’ingresso ai siriani bisognosi di cure mediche.

Osserviamo dunque uno scenario curioso in Giordania, come fotografato dai sondaggi che il Centro di Studi Strategici ha condotto sull’opinione pubblica rispetto ai rifugiati siriani.

I risultati suggeriscono che effettivamente la maggioranza dei giordani continua a simpatizzare con i rifugiati e a sostenere la necessità di politiche di aiuto. Al contempo però, sono d’accordo con il governo nel dire che il grande afflusso di siriani ha avuto un impatto negativo sul paese, in particolare per quanto riguarda le questioni economiche e di sicurezza. La grande maggioranza degli intervistati crede che i rifugiati abbiano avuto un impatto negativo su alloggi, economia, risorse, servizi pubblici, criminalità e terrorismo. Una buona parte della popolazione si dice preoccupata rispetto all’uso che i rifugiati fanno delle risorse giordane, e nel Nord del paese si mostrano meno disposti a risparmiare acqua, nella paura che quest’ultima non venga salvata ma distribuita ai rifugiati.

La questione dei rifugiati rischia così di diventare, come si è visto in altri contesti, il capro espiatorio di problemi economici che trascendono la sola questione demografica.

Alcuni analisti hanno già denunciato il tentativo di strumentalizzazione da parte del governo giordano del “costo dei rifugiati”. La disoccupazione, la mancanza di risorse naturali e infrastrutture sovraccariche non sono una recente conseguenza dei fenomeni migratori, ma hanno radici nel tessuto sociale, economico e politico della Giordania. L’aumento della popolazione con l’ingresso dei rifugiati siriani ha solamente esacerbato problemi endemici preesistenti, in parte originati dalla cattiva gestione delle risorse, dalla corruzione dilagante e dalle politiche economiche neoliberali e di sfruttamento che hanno trasformato il paese dopo la crisi petrolifera del 1979, attraverso programmi di aggiustamento strutturale sotto il controllo del FMI.

Prendiamo il caso dell’acqua. Secondo alcuni studi, circa il 48% delle risorse idriche sono perse a causa di vecchie infrastrutture, manutenzione insufficiente e furti. Secondo Mercy Corps la perdita ammonta ad almeno 76 miliardi di litri persi ogni anno, che, se conservati, potrebbero servire 2,6 milioni di persone. Inoltre, per effetto delle massicce privatizzazioni in atto dagli anni ‘80, la gestione delle risorse idriche è in mano ai privati: circa il 40% della popolazione riceve acqua potabile da compagnie private.

Infine, prima della crisi in Siria, si era previsto comunque che la popolazione della Giordania sarebbe raddoppiata entro il 2024, mentre la fornitura di acqua sarebbe diminuita della metà. Sulla base delle cifre precedenti alla crisi siriana, gli analisti avevano previsto che la Giordania avrebbe esaurito tutte le sue risorse sotterranee di acqua dolce entro il 2060.

La crisi climatica e ambientale, secondo i recenti rapporti dell’IPCC, colpirà duramente il Medio Oriente e le scarse risorse naturali della Giordania ne soffriranno profondamente.

L’emergenza, se non affrontata correttamente, potrebbe portare all’esasperazione delle tensioni sociali già presenti, con conseguenze distruttive per la sicurezza nazionale.

La stabilità della Giordania è di fondamentale importanza per il mantenimento di una relativa pace in Medio Oriente. Biasimare l’aumento demografico non è una soluzione sostenibile e non farà che aumentare le tensioni sociali e le divisioni interne.

E’ dunque fondamentale ripensare un piano strategico nazionale per affrontare la sfida del secolo e rispondere in maniera efficace alla necessità di una nuova giustizia ecologica e sociale che protegga anche le popolazioni più vulnerabili.

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