giovedì 14 ottobre 2021 - Enrico Campofreda

G20, elemosina afghana

Mentre il G20 a trazione Mario Draghi cerca nelle Nazioni Unite un anello per tenere aperto il canale con l’Afghanistan talebano, vuol trattare col suo governo senza riconoscerlo, elargendo una mancetta da un miliardo di euro di provenienza Ue, il ministro degli Esteri di Kabul - che coi rappresentanti europei e americani s’è incontrato a Doha - decuplica l’importo.

 Amir Khan Muttaqi ha riproposto l’azzeramento delle sanzioni che da due mesi bloccano 9.5 miliardi di dollari. Solo liberando quella cifra il Paese, soffocato da mancanza di liquidità, inizierebbe a respirare. Il nodo scorsoio è posto direttamente alla gola dei dipendenti dell’amministrazione statale, rimasti senza stipendio, ma senza denaro liquido nessuno spende e l’intera malandata economia nazionale resta asfittica, in primo luogo nelle città e specie per gli approvvigionamenti di prima necessità, naan compreso. Così più realistica che pietistica appare la dichiarazione del turbante con funzione di rapporti esterni quando afferma che indebolire l’attuale governo afghano non è strategicamente utile a nessuno, soprattutto per far fronte alle due emergenze indissolubilmente legate alla strozzatura economica: sicurezza interna e flussi migratori. La prima rientra nella grande richiesta statunitense ai taliban sin dalla firma dell’accordo qatarino: impedire il radicamento in loco di radicalismi fondamentalisti, oggi targati non più Qaeda bensì Isis. Una presenza che gli studenti coranici si sono serbati in seno e che facendo leva su spaccature e dissidenze è diventata una coriacea concorrenza jihadista in terra afghana. Accanto alla geostrategia militare la questione mette in fibrillazione anche la geostrategia finanziaria, quella cui guardano gli investitori d’ogni risma che sotto i precedenti governi filoccidentali facevano affari, principalmente coi prodotti del sottosuolo. Nel settore i cinesi sono in prima fila, e per questioni diverse ma speculari un territorio tenuto sotto controllo – oggi dai coranici, vista la dissoluzione dell’esercito sostenuto dalla Nato – fa oggettivamente comodo alle potenze globali.

Però i sessantamila miliziani dell’assalto a Kabul, saliti negli ultimi mesi ai duecentomila attuali, tanti ne quantificano gli analisti delle armi, non sembrano garantire uno Stato senza esplosioni e lutti, visto come vengono ‘bucati e beffati’ dallo jihadismo concorrente. Se in esso si stiano muovendo anche cellule di kamikaze uiguri che s’addestrano dietro l’Hindukush per poi rivolgere le esplosioni anche nello Xinjiang aumenta l’apprensione cinese. Sarà anche per questo che Pechino ha snobbato il recente invito del G20, accettando di duettare il 20 ottobre a Mosca coi russi e il Grande Fratello talebano di stanza in Pakistan. Un summit ristretto e sostanzioso sulle necessità afghane, al quale l’America della Casa Bianca e del Pentagono non faranno mancare i propri osservatori. L’emergenza dei flussi migratori, quelli dei grandi numeri, può andar oltre l’affanno di fuga cui abbiamo assistito nelle settimane seguenti il 15 agosto. Chi tuttora chiede di riparare all’estero per i legami coi pregressi lavori a favore dei governi dismessi, per timori di vendette, per dissenso a un regime oppressore verso tutele e diritti grazie ai tanto sperati ‘corridoi umanitari’ e a un’accoglienza organizzata potrebbe ricevere anche il lasciapassare talebano, ma è il molto più cospicuo flusso di migranti per fame – conosciuti nelle rotte balcanica e libica – a preoccupare membri del G20 e ancor più i governanti della Fortezza Europa. Sia i possibilisti dell’accoglienza, sia i costruttori di muri che con le ultime mosse (la lettera dei ministri dell’Interno di Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Slovacchia, Danimarca, Grecia, Ungheria, Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania) hanno ampliato consistenza e puntano a influenzare Bruxelles.

Enrico Campofreda




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