mercoledì 30 marzo 2022 - Enrico Campofreda

Erdoğan, il paciere d’Europa

Il rinnovato tavolo di trattative fra le delegazioni russa e ucraina sotto la regìa turca è l’ennesima dimostrazione del valore di diplomazie e potenze sullo scenario internazionale.

 A Istanbul le delegazioni sono state accolte a Dolmabahçe Palace, primo edificio all’europea, voluto dal sultano Abdul Mejid a metà Ottocento, in piena occidentalizzazione dell’impero Ottomano che tramite riforme (Tanzimat) riprese dal vecchio continente provava a conservare se stesso. Peraltro senza riuscirci. I passi della trattativa fra Mosca e Kiev saranno lunghi e faticosi, sostengono esperti in diplomazia. Comunque l’idea di neutralità del proprio Paese adottata ora da Zelensky e il possibile cessate il fuoco di Putin con un ripiegamento sul solo controllo di Crimea e Donbass, sono un presupposto per avviare accordi. Ma nell’incertezza degli sviluppi d’un terreno minato, materialmente e politicamente, qual è oggi una buona parte dell’Ucraina che si difende dall’invasione russa l’osservazione dei preliminari di dialogo non può non cadere sul padrone di casa. Il discusso e discutibile Recep Tayyip Erdoğan anche in questa crisi si guadagna un ruolo di mediatore che altre figure di primo piano della politica globale non vogliono, non possono o non sanno interpretare. Non tanto Sleepy Joe lasciato libero dal suo staff nel dire ciò che vuole, tranne correggerlo con una precisazione di Blinken per poi rilanciare l’affermazione sul Putin da abbattere. Così più che voce dal sen fuggita quella resta una convinzione - sacrosanta che può essere - ma al vetriolo, in linea col polonio con cui lo zar tratta nemici ed ex amici. Non il massimo in un momento in cui si cerca la strada per far tacere le armi. Nell’evidenza che l’opinione pubblica può ormai avere su chi spinga per un proseguimento dello sfascio e della morte in terra ucraina certe menti statunitensi seguono dappresso quella cinica del dittatore che vorrebbero far abbattere. Addirittura il patriottismo armato, e in cerca di armi, del presidente assediato a Kiev riesce a essere secondo davanti a chi vorrebbe fargli proseguire una guerra che solo un iper nazionalismo militarista può sostenere si stia combattendo per il futuro d’Europa.

Certo, l’ultranazionalismo polacco, baltico, ungherese, ceco, italiano, francese possono ribadire tale concetto, sebbene quest’ultimi non paiono granché convinti. Comunque l’Europa che Washington si propone di difendere con un rinnovato atlantismo fuori tempo massimo, riesce a esprimere l’unica vocazione di unità con l’alleanza targata Nato, al più cercando disperatamente un esercito comune in luogo di una visione politico-strategica. Linea quest’ultima che definire ipotetica se non proprio utopica è farle un complimento. La crisi, la guerra, le ricadute economiche un passo l’hanno fatto compiere agli esecutivi europei e all’Unione stessa: ampliare i bilanci del riarmo, seguendo la posizione dei sostenitori del libero e democratico pensiero per cui “la pace si raggiunge con le armi”. Nella vecchia Europa desiderosa di rinnovamento e guida del mondo diplomazia e politica battono la fiacca. Tantoché fra le “potenze” nostrane - da Berlino a Parigi, da Londra (che in Europa non sta più, ma vuole ricordare i fasti del suo liberalismo) a Roma - non c’è uno straccio di statista che abbia carisma e autorevolezza per proporre un presente e un futuro prossimo che possano contenere l’autoritarismo aggressivo del dittatore Putin, senza finire per fargli la guerra direttamente o per procura tramite gli avamposti Nato che il Pentagono studia non dal 1949, ma da un trentennio a questa parte. Fuori gioco colei che per un quindicennio ha rappresentato un “faro” per la Ue (beati monoculi in terra cecorum), chi giganteggia nel provare a risolvere una crisi alle porte dell’Europa è l’autocrate Erdoğan che la stessa Cancelliera Merkel ha osteggiato fortemente quale possibile membro dell’Unione, tranne chiedergli aiuto per contenere la crisi migratoria del 2015 coi milioni di siriani che premevano alle porte d’una Fortezza Europa tenuta chiusa ai propri egoismi dal gruppo di Višegrad. Putiniani? Zelenskyani? Chissà? Certamente razzisti, basta chiederlo ad afghani e pakistani affacciati a quei confini.  

Enrico Campofreda




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