mercoledì 8 marzo 2023 - Libero Gentili

El condor pasa

Questa è la descrizione di alcune scene che risalgono alla mia prima visita di Varanasi - la città sacra dell’india – circa quarant’anni fa. Alcune circostanze mi portarono a considerare e a vivere accostamenti tra due culture tradizionali molto antiche: quella hindu e quella andina.

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Il condor è l’emblema del sole. Gli Apu stessi (gli spiriti potenti degli indios andini), i pastori degli uomini, gli hanno conferito il rango di uccello divino ed il sole è ugualmente adorato dall’indio della sierra e da quello della costa. Con le sue possenti ali veleggia sopra la scogliera, dove esegue il suo rito nuziale e sulle rocce inaccessibili delle Ande dove depone il frutto del suo amore, che le genti del mondo, i comuni mortali, non potranno mai scorgere.

E' l’Uccello tonante, il Thunder Bird, un condor mostruoso che veniva raffigurato sui totem di alcuni indiani dell’America del nord, l’onnipotente dominatore dei cieli e signore degli elementi. La sua potenza simboleggia il prestigio che compete solamente alla famiglia di alto rango.

Siamo a Varanasi e stiamo percorrendo a piedi una delle tante stradine che digradano verso il Gange. Una sinfonia di campanelli squillanti proviene dalle decine e decine di biciclette che sbucano da ogni parte ed insieme a vecchie motorette, FlAT 1100 e taxi a pedale, riescono a creare un traffico caotico che sembrerebbe dover offrire ad ogni istante una vittima della strada, ed invece non succede niente.
Come microrganismi visti al microscopio che si spostano freneticamente, giurerei che queste persone stanno muovendosi senza una meta precisa.

Ai lati della strada, dalle bancarelle illuminate, ogni tanto qualche vecchio giradischi del tipo di quelli che hanno fatto la nostra felicità negli anni ‘60, diffonde una musica dal sapore vagamente orientale, ma con accompagnamento di basso e batteria.

Non uscirei più da questo sogno! Sto assaporando un'atmosfera che ho già vissuto durante gli anni della mia adolescenza, in quelle fiere paesane che rappresentavano il divertimento di noi ragazzotti, e il cui ricordo era rimasto sepolto dalle esperienze e dalle serie occupazioni della vita adulta.

Mi fermo ad osservare degli "Shivalingam” di varie dimensioni assieme ad altri oggetti di carattere sacro; uno di questi mi sarà utile, tornato a casa, per le mie meditazioni. Si tratterà solamente di concordare il prezzo con il venditore. Chiedo, e rilancio a mia volta la cifra, quasi dimezzata.
Il mio interlocutore mi guarda quasi disgustato e si volge altrove, mi allontano con la convinzione che sarò richiamato: niente!

Più avanti scorgo dei dolci caratteristici. So bene che non ne comprerò, ma intanto si insinua una voglia tentatrice che fa vacillare i miei fermi propositi…ancora per poco: un topo dalle dimensioni quasi umane vi passeggia sopra, senza fretta...

Man mano che proseguiamo, mi accorgo che quell’atmosfera chiassosa, l'allegro vociare della gente, va cedendo il posto al lamento costante dei bambini mendicanti che ti si appiccicano addosso con la manina tesa: "Hallooo... hallooo mamiiiiii ...”
La nostra guida, qui a Varanasi, ci ha già informati sulla realtà di questi "mendicanti professionisti” che riescono a ricavare dalle elemosine almeno 30 o 40 rupie al giorno, una cifra per loro considerevole, ma intanto questi visetti supplichevoli fanno presa sul nostro sentimentalismo.

Mi abbandono ad una serie di considerazioni, mentre sulle note di “el condor pasa” un venditore di flauti ricavati dalla canna di bambù, sta sfoggiando i suoi pezzi artistici, oltre alle sue qualità musicali. Se lì a due passi non ci fosse il Gange, giurerei di essere sulle Ande...

“Durante la festa del Sole, apparve un condor, questo messaggero del sole, inseguito dai falchetti che cercavano di ucciderlo a colpi di rostro.
Quasi chiedesse soccorso al suo Dio, il condor si lasciò cadere nella piazza… Era malato, ricoperto di scaglie rognose, quasi nudo di piume… e pochi giorni dopo moriva... Il crollo fu tremendo.

In pochi anni la grande aristocrazia Inca - i discendenti di Sinchi Rocà, figlio del primo inca leggendario… e di Pachacutec, di Tùpac Yupanqui e di Huayna Càpac …gli ultimi inca che regnarono prima dell’invasione spagnola diventarono dei parassiti, avidi soltanto di stemmi, di abiti spagnoli e di redditi immeritati."

Un’esclamazione mi strappa da quel brandello di tempo sacro per ricondurmi, attraverso un volo dì millenni e di migliaia di chilometri al tempo profano. E’ il console onorario del Nepal, con il quale stiamo camminando, che mi scuote con una affettuosa gomitata "ecco il Gange!".

Alcuni minuti di sosta sui gradini del Ghat, in attesa che giunga il barcone che ci porterà ad assistere a una cremazione notturna.
Intanto, tra le note insistenti di “el condor pasa" i mendicanti si son fatti più numerosi e a stento riesci a sottrarti alle loro pressanti richieste!
Alcuni di loro hanno le mani fasciate da bende… la cosa mi lascia un pò interdetto, ma vengo subito rassicurato… si tratta di lebbra secca.

Ci sistemiamo alla bell’e meglio sul vecchio barcone, cercando di mantenere un precario equilibrio… i sentimenti che suscitano in me la vista di quellacqua scura e limacciosa non sono certamente degni di un primo incontro con un fiume sacro.

A pochi metri da noi sembrerebbe galleggiare un corpo, del quale affiora, appena, qualcosa simile ad una groppa. Chiedo a una guida del luogo, un Sik, cosa possa essere.
"Forse un animale, ma ci si può trovare di tutto..."

Non ho ben capito se questa vaga risposta rappresenti un tentativo per sconcertare ulteriormente il turista. Qualcuno, comunque rabbrividisce… Mentre il barcone procede lentamente verso il Manikarnika Ghat, il ritmico tonfo dei remi e l‘ululato di un cane in lontananza, fanno da sottofondo alla voce stentorea del Sik che, ritto sulla barca, ha iniziato a informarci…

“Varanasi è situata su tre colline, le quali corrispondono, secondo la mitologia indù, al tridente del dio Shiva. La città è stata costruita solamente sulla riva sinistra del fiume, mentre sull’altra non esiste alcuna costruzione.
La larghezza del Gange, durante i monsoni, è di circa due chilometri e mezzo e i gradini dei ghat, le scalinate che scendono verso il fiume sono interamente sommersi. La sua profondità, d’estate, è di novanta metri.

Lungo la riva, oltre ai numerosi templi, si possono scorgere le case delle famiglie ricche e i palazzi di alcuni maharaja. Durante gli anni della loro vecchiaia gli indù ambiscono trascorrere gli ultimi giorni della loro esistenza in quella che è considerata l’abitazione del dio Shiva e fortunato è colui che muore a Varanasi in quanto, secondo le credenze, non rinascerà più.
Nella parte vecchia della città esistono, quindi, degli ostelli dove i pellegrini possono sostare anche un mese gratuitamente dormendo per terra.

Giunti in riva al fiume per le abluzioni, si immergono per cinque volte nelle acque sacre, simbolizzando così la purificazione dei cinque elementi che compongono il corpo umano.
Portano con sé delle brocche di rame o di ottone, che servono per portare l’acqua del Gange al tempio di Shiva e con quell’acqua bagneranno il simbolo antropomorfico del dio (lo Shivalinga).

Lungo la riva si possono notare dei lastroni di pietra dove i "Dhobi” ovvero i lavandai, svolgono il loro lavoro. In India esiste ancora una maniera antichissima di lavare gli abiti, in generale riservata agli uomini, in quanto è molto faticosa
I panni vengono cosparsi di una polvere che si estrae dal terreno. Dopo circa tre o quattro ore vengono immersi nell’acqua del fiume e quindi battuti violentemente sulla pietra, fino alla completa pulizia. Naturalmente, dopo quattro o cinque lavaggi, gli abiti non saranno più utilizzabili.

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Trasporto del defunto al fiume Gange

Mentre ci avviciniamo al Manikarnika Ghat scorgiamo fiamme alte levarsi dalle pire di legna, nel campo crematorio.
Il sudario nel quale è avvolto il corpo è bianco per gli uomini e per le vedove e giallo ed arancione per le donne in generale. I corpi vengono portati in barella di bambù a spalla, fino alla riva del fiume.ì

Quando giungono sul ghat, vengono immersi nell’acqua per l’ultimo bagno sacro. Quindi i parenti versano nella bocca del cadavere l’acqua del Gange, mescolata ad alcuni steli neri, oppure una pallottola di ghi (burro chiarificato) ed un pezzetto di legno di sandalo come significato augurale per il viaggio che sta per intraprendere.

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Corpi durante la cremazione (foto autore dell’articolo)

Il figlio maggiore o il minore, se il defunto è un genitore, deve rasarsi completamente, lasciando un codino (chotì) all'altezza della nuca e fare il bagno sacro.

Dovrà fare, all’officiante, unofferta simbolica che risale a tempi antichissimi e che consiste in una rupia e un quartino, oltre a cinque pezzi di legno, ricevendone in cambio il fuoco sacro, mentre gli altri parenti dovranno portare legna in quantità necessaria. Il suo peso varia da un minimo di 280 kg, ad un massimo di 540 Kg. e verrà disposta sotto e sopra il corpo, avvolto in un lenzuolo.

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Offerta delle luci al fiume Gange (ARATI). (Pron. "artì")

Quando il figlio tornerà con il fuoco, compirà cinque giri intorno alla pira lasciando compiere, simbolicamente, l’azione dei cinque elementi di cui si ritiene sia composto il corpo umano e cioè: Etere, Aria, Fuoco, Acqua, Terra.

Occorrono tre o quattro ore affinché il corpo bruci completamente. Rimarranno solamente lo sterno e l'osso sacro che, insieme alle ceneri, dovranno essere immersi nel fiume dai parenti che hanno assistito al rito.

Si procede, quindi, allo spegnimento della pira. Con una brocca di terracotta sarà versata l'acqua del fiume, per quattro volte consecutive. La quinta volta, il parente che compie il rito verserà l’acqua voltando, però, le spalle alla pira e quindi se ne andrà senza guardare indietro.
Da quel momento è terminata la relazione del defunto con i cinque elementi terreni.

Coloro che procedono alla cremazione lontano da Varanasi, raccoglieranno le ceneri e le ossa che restano e le conserveranno in urne di rame, sino a quando sarà possibile immergerle nelle acque del Gange o di qualche altro fiume sacro. I pellegrini, infatti, che giungono da lontano, portano generalmente con loro i resti di qualche antenato per immergerli nelle acque.

Mentre le fiamme consumano lentamente il corpo che vi è immerso, già altre barelle sono giunte sui gradini del ghat ed attendono il loro turno. Le cremazioni si svolgono ininterrottamente durante le ore del giorno e della notte. Queste immagini rimarranno impresse per sempre nella mia memoria. Guarda il video da me girato al campo crematorio del Manikarnika Ghat https://youtu.be/hyHlWJjliKQ
 

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Campo crematorio al Manikarnika Ghat (foto autore dell’articolo)

La barca mi sta riportando indietro, verso il ghat dal quale eravamo partiti; chissà se il condor sarà volato via...
Traendo spunto da questa battuta ironica, mi piace qui sottolineare la corrispondenza di alcuni aspetti nelle due culture, quella andina e quella indù.

Come la tradizione altamente sviluppata dell'indù ha impedito che venisse sopraffatta dalla cultura dei popoli invasori, così anche l'indio delle Ande ancora sopravvive culturalmente, riuscendo a difendere la propria tradizione. Esse sono andate progressivamente adattandosi alle nuove condizioni, conservando allo stesso tempo la loro integrità e riaffermando i loro antichi valori.

Qui la tradizione comune è simbolizzata dal condor, questo uccello possente che riunisce dal suo punto di vista superiore - direi quasi metafisico - diversi adattamenti alle situazioni geografiche, culturali e sociali dei due popoli non in maniera sincretica ma essendo esso stesso la sintesi, il punto di partenza comune alle due culture. 

Il simbolismo fu molto sviluppato nella civiltà incaica, in cui la scrittura era stata bandita dagli dèi come l'origine di ogni sventura.
L'unico supporto, infatti, alle tecniche mnemoniche era costituito dai "quipu" cordicelle variamente colorate a seconda del significato che si attribuiva loro, sulle quali venivano fatti dei nodi per registrare numeri secondo un sistema decimale.

Non a caso la conoscenza dei sacri Veda, in India, fu conservata e tramandata esclusivamente attraverso la trasmissione orale da parte della casta sacerdotale brahmana, servendosi di metodi mnemonici a volte complicatissimi.

Il più antico simbolo nelle due culture fu il cerchio, lo zero, simbolo aritmetico per gli indios rappresentante BICHAMA, l'uovo che indica l'inizio della vita e, per la tradizione indù, l'Uovo Cosmico, dove Brahma si rinchiude per rinascere come HIRANIAGARBHÀ, letteralmente l'embrione d'oro.

Questa qualità "splendente" non fa altro che rafforzare la posizione di centralità che già possiede l'uovo del mondo rispetto al cosmo, quasi ad assimilarlo simbolicamente al Sole.

E non fu il Sole il maggior simbolo degli Incas? Inti, il Padre Sole che diede la nascita a Manco Capac, il primo signore Inca e fondatore dell’impero?
E il condor è l'emblema del Sole, la tradizione primordiale da cui tutto procede.

È proprio durante la festa di Inti Raymì per il solstizio d'inverno, questa porzione di tempo sacro che attraverso il rito riconduce l'Inca ad avvenimenti non umani, che il condor viene abbattuto dai falchi a colpi di rostro, presagendo così la fine del regno e della tradizione incorrotta degli Incas.

(Questo contenuto può essere ascoltato in formato audio Podcast ai seguenti link: Spotify, Spreaker, Amazon music)




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