Egitto: dopo gli scontri, Fratellanza di lotta e di governo
Da sempre si considerano “servitori di Dio e della patria” eppure i Fratelli Musulmani sono stati a lungo lontani dalla politica. In verità la “scelta” era indotta dalle metodiche repressive, quelle antiche e palesi del socialisteggiante Nasser e le più recenti dell’autocrate Mubarak che fingeva di carezzarli per controllarli meglio. Elargiva aperture e torture. Sotto l’ultimo raìs erano diventati Fratelli per nulla coltelli, anzi. Perciò almeno una generazione di giovani che si rifaceva all’ideologo martire Sayyid Qutb (fatto impiccare nel 1966 da Nasser) per oltre un ventennio s’è tenuta alla larga dal movimento. Tutt’al più ha bazzicato – se i Mukhabarat locali e la Cia non li intercettavano – i nuclei del fondamentalismo salafita e qaedista. Invece dal febbraio scorso, superata l’iniziale refrattarietà alla rivolta, i Ikhwān al-Muslimūn sono insieme alla piazza giovanile gli attori prìncipi della scena egiziana. L’altro protagonista è il passato perfettamente incarnato dalle Forze Armate e da chi, palesemente o nell’ombra, s’allea con esse. Che sin dalla nascita la Fratellanza avesse avuto differenti tendenze non è una novità. Figurarsi negli ultimi mesi quando ha gradualmente maturato la convinzione a esporsi pubblicamente e addirittura assumere un ruolo di primo piano sulla scena della difficilissima transizione del dopo Mubarak. Una transizione frenata dalla lobby militare, dietro la quale operano forze interne e le solite potenze della geopolitica mondiale.
L’attesa scadenza elettorale, pur articolata in un defatigante sviluppo consultivo fra Camera Bassa e Alta, è un momento rilevante per una nazione che vuol sancire un cambio di passo dall’uso tarato della stessa democrazia rappresentativa che, negli anni del suo potere, faceva vincere al raìs le elezioni col 98% dei consensi. Eppure queste consultazioni utili all’Egitto del cambiamento, su cui pesa il rischio di rinvio per ragioni d’ordine pubblico che forse proprio un rinvio può far definitivamente degenerare, possono non bastare. Chi è sceso a Tahrir, chi è ancora lì, chi lo fa ad Alessandria e altrove vedendo quaranta compagni diventati cadaveri per bastonate, pallottole e gas nervino, questo dice nelle interviste ai cronisti del posto. Questo si legge nei mille messaggi che volano su Twitter, su cui scrive anche El Baradei candidato alla presidenza. Si teme che i militari manipolino, che non rinuncino alle loro rendite di posizione. Attorno al sentire della piazza la Fratellanza si divide, seppure nell’ufficialità del suo sito non lo fa trasparire. Poiché l’urna potrebbe premiare la loro lista Giustizia e Libertà, com’è accaduto il mese scorso alla tunisina Ennadha, una tendenza nel movimento è ormai quella di non farsi sfuggire l’occasione. Per altri Fratelli risuonano invece le parole del leader Mohammed Badih alla vigilia delle manifestazioni dello scorso gennaio “la tirannia sta corrompendo gli animi e le coscienze, è l’inizio della fine del regime”.
Proprio perché quell’esordio di rivolta fu mancato dai Fratelli Musulmani e gestito spontaneamente da tanti giovani, riuniti in neonate strutture (Unione dei Giovani della Rivoluzione, Movimento 6 Aprile) ora una parte dei Ikhwān al-Muslimūn segue con devozione il vento di Tahrir. Lo considera un nobile patriottismo, unica garanzia per tagliare i ponti col passato. Ma nell’immediato anche altri problemi incombono. Nei dieci mesi di ribellione e speranza di svolta la già non florida situazione finanziaria del Paese s’è ulteriormente aggravata. Gli 80 o 100 milioni – statistiche sicure mancano - di figli d’Egitto devono essere sfamati importando l’85% delle derrate alimentari. Una delle grosse entrate nazionali, il turismo, è attualmente contratta, quelle di idrocarburi e dei transiti a Suez proseguono ma resta l’enorme iniquità della redistribuzione della ricchezza. E’ l’altra faccia delle primavere arabe, legata indissolubilmente alle tirannie che sulla gestione economica per sé e famigli fondavano potere e affari.
Cos’hanno da perdere se non la già diffusa disoccupazione i milioni di giovani che non ci stanno più e spingono per un radicale cambiamento? Allo stato attuale la vita, ma poiché la partita si fa durissima, anche i tatticismi di alcuni leader dei Fratelli Musulmani diventano ingombranti. Secondo costoro alla vigilia elettorale occorre lasciare la piazza, mentre altri ammirano i ragazzi (e anche adulti) delle pietre perché hanno il coraggio di combattere senza tregua. Oggi l’egiziano della rivolta può andare avanti, auto-organizzarsi e non aver bisogno di loro. Oppure finire fra i gruppi salafiti che, pur dati per minoritari, in questi mesi non sono stati a guardare. Se nonostante le tragiche notizie di vittime che si susseguono le votazioni si terranno, ampie dovranno essere le risposte del futuro establishment politico. Un ruolo al quale Giustizia e Libertà aspira: Fratellanza di lotta e di possibile governo. Lobby militare e Grandi del mondo permettendo.