lunedì 12 settembre 2011 - Enrico Campofreda

Egitto-Israele, i simboli di una crisi

Le rappresaglie, il muro, il tutor, le kefiah. Sono i simboli dei venti giorni di fuoco che dal 18 agosto al 10 settembre hanno riportato i rapporti fra Egitto e Israele indietro di quarant’anni, ai confini della guerra del Kippur o giù di lì.

I fatti sono noti. La rappresaglia o lo spropositato uso della forza, definito azione necessaria alla propria sicurezza, è la linea che l’establishment israeliano ha fatto sua da almeno vent’anni contro i nemici mediorientali. Il 18 agosto ne sono rimasti vittime cinque poliziotti di frontiera egiziani trattati come gli attentatori palestinesi e stesi a colpi di mitra. E’ il modello che tutte leadeship politiche di Tel Aviv, non solo il Likud che Netanyahu ha ereditato da statisti-terroristi alla Begin, ma il Labour del dopo Rabin diventato con Barak un partitino da 12% e i “moderati” di Kadima che hanno avuto nella propria esponente di punta Livni la lady delle bombe al fosforo di Piombo fuso, hanno preferito alla via diplomatica.

Il "dalli al palestinese-terrorista", sia esso un combattente quale l’ingegnere Ayyash organizzatore dei kamikaze di Hamas, sia che fossero leader politici come lo shaik paraplegico Yassin o Rantisi, è diventato una normalità. Uccisioni a sangue freddo in quella guerra latente senza fine che il sionismo persegue con qualsiasi esecutivo contro i palestinesi, ma anche verso nazioni ree di autodeterminazione com’è accaduto al Libano nel luglio 2006.

Gli oltre 700 km di Muro che hanno trasformato in misero bantustan il lembo di terra che Arafat aveva strappato con gli Accordi di Oslo, erano teorizzati dal sostenitore principe Sharon come la barriera di sicurezza. In verità la sicurezza è garantita solo dall’occupazione militare nei confronti di un popolo privo d’un proprio esercito, ridotto a mendicare lavoro, frantumato nel quotidiano e negli stessi affetti dai check-point della vergogna. Un muro che se non fosse guardato a vista dall’Idf con armi di terra e di cielo farebbe la fine di quello del Cairo che l’ambasciatore Levanon aveva fatto erigere settimane or sono a sua difesa. E’ finito frantumato sotto i colpi d’una piazza rabbiosa. Nella follìa di auto-isolamento, che fa crescere una diffusa paranoia dell’accerchiamento “antisemita”, la leadership israeliana ha ricercato l’unica via di salvezza che da decenni le permette l’aggiramento della coesistenza coi palestinesi: il ricorso al tutor statunitense.

Obama, alla vigilia anch’essa simbolica per il suo Paese della lacerazione subìta con l’attentato alle Torri Gemelle, è intervenuto nella gravissima crisi con l’Egitto spezzando ancora una volta una lancia a favore dell’alleato di Tel Aviv. La sua telefonata a Sharaf ha messo in moto l’intervento delle forze speciali egiziane che hanno liberato sei guardiani rimasti intrappolati nell’ambasciata assediata. Il tutor salvifico è un ruolo costante giocato dalle presidenze statunitensi, sottoposte al controllo di quelle lobbies (Aipac, Aief e simili) che ne influenzano le fortune elettorali.

La Casa Bianca spesso non muove un dito nei confronti degli abusi, civili e militari, compiuti da Israele. Si tratti di accordi non rispettati, d’insediamenti coloniali, di assassini mirati di avversari o di vere e proprie stragi di civili inermi. Stavolta per attivare l’aiuto Obama e i suoi referenti in Egitto hanno dovuto usare lo stratagemma di nascondere i volti degli israeliani dell’ambasciata sotto le kefiah, il simbolo dell’orgoglio palestinese per eccellenza. Solo grazie a quel “lasciapassare” sono sfuggiti all’ira dei dimostranti, in una bolgia che ha fatto tre morti e oltre mille feriti, a conferma che la polizia locale non è stata complice né compiacente verso la folla infuriata.

Simbolicamente l’episodio potrebbe far riflettere Netanyahu e colleghi: ciò che in Medio Oriente è rimasto congelato per decine di anni sta avendo uno scombussolamento epocale. Che avrebbe bisogno anche da parte israeliana di una realpolitik non a senso unico perché il grande mallevadore d’Oltreocano in quell’area non ha più forza e autorità per imporre un sistema a suo piacimento.

Eppure pare che il premier israeliano, che dovrebbe meditare anche sul potenziale esplosivo del malcontento sociale dei suoi concittadini indignati, non colga certi segnali. Si limita a sottolineare come nel terremoto mediorientale il suo Paese stia operando con calma e responsabilità. Mentre nel suo schieramento perdura la cecità di chi sostiene “Nei Paesi arabi per vedere una vera primavera si possono attendere altri 100 o 200 anni”.




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