sabato 17 dicembre 2011 - Sergio Giacalone

E "Napisan" riabilitò "Sciaboletta"

1922 – 2011: due crisi extraparlamentari a confronto.

E’ passato quasi un mese dalla nomina di Mario Monti a Presidente del Consiglio, un mese di attese, di timori, di ansie, ma soprattutto di sorprese, partendo dagli esordi. Perché è innegabile che l’esperienza del Governo Monti, senza entrare in prematuri giudizi di merito, passerà alla storia per le sue anomalie formali, oltre che per il leit motif “lacrime e sangue”.

Diciamolo (per citare un fumantino ex ministro): la caduta del governo Berlusconi e la nomina di Mario Monti a nuovo Presidente del Consiglio sono avvenute in un contesto e con modalità alle quali non eravamo abituati. E come se tutto sia avvenuto all’ombra, sì, della Costituzione vigente, non però, come è d’uopo, attraverso la rigida applicazione delle sue norme.

Per la prima volta nella storia della Repubblica italiana un Governo è stato delegittimato da forze extra parlamentari, affossato da soggetti estranei a quelli previsti dal dettato costituzionale, sostituito dal governo Monti, con modalità non perfettamente in linea con la norma e la prassi consolidate e grazie ad un’iniziativa ascrivibile in massima parte al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, elevatosi al di sopra delle parti e delle difficoltà incontrate dalla politica istituzionale e riuscito ad imporre a tutte le forze presenti in Parlamento una soluzione in definitiva non parlamentare.

Le reazioni sono state entusiastiche. Tutti o quasi, da destra a sinistra hanno applaudito all’iniziativa del presidente Napolitano, hanno salutato come salvifico il superamento dell’impasse parlamentare e le forzature operate dal Presidente (a cominciare dalla tempestiva nomina di Monti a senatore a vita per finire con l’appoggio unitario al nuovo governo di una maggioranza ancora tale “in pectore” ma non più riconosciuta tale e di una opposizione divenuta artificiosamente maggioranza);

il Presidente della Repubblica è stato additato come colui che agisce per un supremo interesse capace di giustificare certe forzature operate sul sistema e sulla prassi costituzionale: il bene e la salvezza dell’Italia. Perché è di questo che stiamo parlando. Tutto questo, lo ribadisco, è nuovo nella storia repubblicana del nostro Paese. Ma la storia d’Italia non inizia con l’avvento della Repubblica. Nel 1922 l’Italia era un Regno e al Quirinale viveva Vittorio Emanuele III.

Vittorio Emanuele III, per i nemici e i detrattori "Sciaboletta", è passato alla storia come il Re che consegnò l’Italia al fascismo. Sulle colpe di Vittorio Emanuele III in quei frangenti del 1922 e sulla mancata firma dello stadio d’assedio da opporre alla marcia su Roma si è basata tutta la campagna antimonarchica antecedente il referendum istituzionale del ’46 e tutta la storiografia antifascista proliferata dopo l’avvento della Repubblica, avvalorata da testimonianze rese da chi, fascista un tempo, aveva necessità di mostrarsi figlio fedele della Repubblica. Eppure…

Al di là di alcune differenze, prima fra tutte quella inerente al vertice istituzionale, ciò che accadde in quel lontano e funesto ’22 ha molte analogie con il presente: a partire dall’assunto che l’Italia era uno Stato liberale e costituzionale, a regime parlamentare, con un Presidente del Consiglio eletto con sistema maggioritario che nominava i ministri e tutti giuravano nelle mani del Re.

Il problema è che nel 1922 (come nel 2011) gli ingranaggi di questo sistema avevano smesso di funzionare. La I Guerra Mondiale aveva sconvolto gli equilibri sociali ed economici; la politica non era più in grado di rispondere all’esigenze di un popolo provato dal sacrificio bellico e desideroso di farsi protagonista della vita pubblica; per mantenere il potere e sfuggire ai pericoli del bolscevismo i partiti tradizionali avevano trovato nelle corruttele il mezzo più pratico e immediato, facendo sprofondare il sistema nel malcostume;

Il Parlamento era paralizzato dal trasformismo e da condotte politiche disdicevoli. Di fronte a questo sfacelo la piazza aveva reagito a modo suo, chiedendo a gran voce il cambiamento e trovando allora in Mussolini un capo popolo camaleontico capace di farsi interprete dei sentimenti della piazza e di prospettare un futuro migliore.

Fatte salve le rispettive caratterizzazioni, un parallelismo con il presente non può non scorgersi. Sappiamo come finì allora. Il Re preferì assumersi la responsabilità di ascoltare gli umori della piazza al di là delle beghe parlamentari e conferì a Mussolini che pur non era espressione di una maggioranza in Parlamento, l’incarico di formare il Governo, nella prospettiva di incanalare il suo movimento, ormai popolarissimo, nella prassi istituzionale e di legalizzarne il programma.

A rileggere i giornali usciti dal 29 al 31 ottobre 1922, i giorni successivi al conferimento dell’incarico a Mussolini da parte del Re, quest’ultimo è dipinto come un salvatore, colui che aveva saputo assumersi il peso delle proprie altissime responsabilità salvando il paese dal tracollo o, peggio, dalla guerra civile, affidandone le sorti a chi proclamava di agire per la normalizzazione, per il ritorno allo Statuto, per la salvaguardia delle forze più sane e patriottiche. L’appoggio dato al Governo Mussolini da una grandissima maggioranza parlamentare, mantenuto per i successivi due anni, era il suggello di una soluzione che non si poteva prospettare diversa.

Proviamo per gioco a rileggere quest’ultimo paragrafo sostituendo le date (dal 16 al 18 novembre 2011) e i nomi dei protagonisti (Monti per Mussolini, Napolitano per Vittorio Emanuele III) e citando la Costituzione al posto dello Statuto: non è sorprendente il risultato?

A questo punto mi chiedo: cosa fece quel basso Re di diverso da quello che oggi l’alto Presidente della Repubblica ha compiuto nel supermo interesse del paese? Al di là delle differenze fisiologiche dovute al tempo trascorso, non sembrano forse, lo svolgimento della recente crisi e il suo epilogo, un dejà-vu? Oggi come allora sono state la piazza e soggetti extraparlamentari a decidere sul Governo del Paese (con la differenza peggiorativa che oggi quei soggetti oltre che extra-parlamentari sono stati extra-nazionali).

Oggi come allora un Capo dello Stato, conscio della propria responsabilità, ha ritenuto di dovere operare una forzatura sul dettato della Carta Costituzionale per superare un impasse che metteva in pericolo la stessa sopravvivenza del paese, dando al paese stesso un governo stabile e capace di imporre limitazioni con pugno fermo, in attesa dell’auspicabile e necessaria normalizzazione.

Oggi però il Presidente Napolitano è un eroe. Ieri Vittorio Emanuele III, un traditore della Patria. Non ho mai negato e sarò sempre pronto ad affermare che, nel prosieguo, quel Re avrebbe potuto agire per evitare che la normalizzazione imposta da Mussolini scivolasse nel regime totalitario che portò l’Italia alla II Guerra Mondiale e che in quel baratro finì col trascinare se stesso, la Monarchia e il paese intero.

Ma in quella prima fase no. La condanna della storia di regime inflitta a Vittorio Emanuele III quale unico responsabile dell’ascesa del fascismo al potere appare ingiusta e perde il suo smalto e la sua finta veridicità proprio alla luce dei fatti recenti, quando il superamento della Costituzione in nome del bene supremo del paese è stato salutato con un generale: "Grazie Presidente".




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