mercoledì 5 dicembre 2012 - Riccardo Noury - Amnesty International

Dopo il voto dell’Onu sulla Palestina, Israele accelera sugli insediamenti

 

Il voto con cui, il 29 novembre, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto la Palestina come stato osservatore non membro ha suscitato forti reazioni da parte del governo israeliano mettendo in ombra il fatto che tale riconoscimento, oltre a essere motivo di onore per i palestinesi, dovrebbe comportare anche degli oneri a loro carico.

La Palestina è ora nella posizione di ratificare trattati del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, assumendo dunque responsabilità riguardo alle violazioni dei diritti umani e ai crimini di diritto internazionale.

In particolare, la Palestina potrebbe immediatamente accedere allo Statuto della Corte penale internazionale, dichiarando di accettare la giurisdizione della Corte sui crimini commessi a partire dal 1° luglio 2002.

Questa mossa significherebbe aprire uno spiraglio verso la ricerca della giustizia internazionale per i crimini di guerra e i possibili crimini contro l’umanità commessi da tutte le parti coinvolte nel conflitto del 2008-2009 a Gaza e nel sud d’Israele, le cui vittime e i familiari di queste ultime attendono giustizia da troppo tempo.

È preoccupante, da questo punto di vista, che diversi stati tra cui Regno Unito e Stati Uniti d’America, abbiano fatto pressioni sui diplomatici palestinesi perché rinuncino ad accedere ai meccanismi per l’accertamento delle responsabilità dei crimini di diritto internazionale.

Peraltro, non è che dal lato palestinese vi siano state dichiarazioni entusiastiche di fronte a questa prospettiva. Un giorno, la giustizia internazionale potrebbe chiamare a rendere conto anche delle migliaia di razzi lanciati da Hamas in questi ultimi anni verso Israele…

E passiamo alle reazioni del governo israeliano, per il quale l’iniziativa all’Onu è stata un atto indebito, poiché lo status della Palestina avrebbe dovuto essere determinato nel contesto degli sviluppi degli accordi di Oslo del 1993.

La prima è stata la decisione di non restituire all’Autorità palestinese oltre 100 milioni di dollari di tasse a essa spettanti.

La seconda è stata l’annuncio dell’espansione degli insediamenti in Cisgiordania. Il 30 novembre, un giorno dopo il voto dell’Assemblea generale, il governo israeliano ha reso noto di aver autorizzato ulteriori 3000 unità abitative in insediamenti nuovi o da espandere della Cisgiordania occupata.

Non è una novità. Il 3 novembre 2011, dopo l’ammissione della Palestina all’Unesco, il governo israeliano aveva dichiarato che sarebbero state costruite 2000 nuove abitazioni a Gerusalemme Est e negli insediamenti di Efrat e Ma’ale Adumim (nella foto, aprile 2010). Dodici giorni dopo, il 15 novembre 2011, il ministro dell’Edilizia aveva pubblicato il bando per la costruzione di 2230 nuove unità abitative oltre la linea verde dell’armistizio del 1949.

Ancora prima del voto dell’Assemblea generale della scorsa settimana, il 6 novembre il ministro per l’Edilizia aveva avviato la gara per la costruzione di 1285 unità abitative a Gerusalemme Est e nell’insediamento di Ariel.

L’espansione annunciata il 30 novembre riguarda l’area strategica di sviluppo nota come E1, un corridoio tra Gerusalemme Est e l’insediamento di Ma’ale Adumim. Se portato a termine, questo progetto, fermo per 10 anni a causa delle pressioni statunitensi, interromperebbe la continuità tra Gerusalemme Est e il resto dei Territori palestinesi occupati.

L’esercito israeliano ha già elaborato i piani per sgomberare con la forza e trasferire 20 comunità palestinesi – circa 2300 persone, in buona parte beduini jahalin, rifugiati dal 1948 e di cui abbiamo già parlato in questo blog – dalle loro abitazioni situate nell’area E1 e nella zona dell’insediamento di Ma’ale Adumim. Leautorità israeliane non hanno consultato le comunità interessate, che si oppongono al trasferimento. Sulla maggioranza delle case e delle strutture di queste comunità pende già un ordine di demolizione.

All’indomani del voto dell’Assemblea generale, i coloni degli insediamenti situati nei pressi delle comunità beduine hanno intensificato le loro tattiche intimidatorie e violente. Bambini e pastori sono stati attaccati e i coloni hanno preso a trasmettere musica ad alto volume e a gettare fasci di luce verso i villaggi palestinesi.

Infine, tra pochi giorni, potrebbe essere dato il via al piano che prevede la costruzione di 1700 abitazioni a Ramat Shlomo, nella zona settentrionale di Gerusalemme.

Quelli che per il primo ministro israeliano Netanyahu sono interessi nazionali vitali, sono in realtà violazioni del diritto internazionale.

L’articolo 49 della IV Convenzione di Ginevra proibisce a una potenza occupante di trasferire la sua popolazione civile nel territorio che occupa. Israele ha sempre contestato il fatto che i palestinesi siano protetti dalla Convenzione, ma l’illegalità degli insediamenti rispetto a essa è stata confermata dalla Corte internazionale di giustizia e sostenuta persino da governi, come quello di Londra, non certo ostili verso Israele.

Oltretutto, la politica israeliana nei Territori palestinesi occupati è caratterizzata dadiscriminazione per motivi di nazionalità, etnia e religione.

Gli insediamenti, costruiti su terre palestinesi, sono riservati a persone di religione ebraica, che hanno diritto alla nazionalità israeliana e alla protezione da parte delle leggi israeliane anche se sono immigrati da altri paesi per andare a vivere direttamente negli insediamenti nei Territori occupati palestinesi senza aver risieduto nello stato d’Israele.

Ai palestinesi, che sono sottoposti alle leggi militari israeliane anziché a quelle civili, non è consentito entrare o avvicinarsi agli insediamenti o usare le strade riservate ai coloni. In questo modo, vengono privati delle loro risorse e sono limitati nei movimenti. L’impatto di tutto questo è descritto nei rapporti delle Nazioni Unite.

I coloni ricevono sostanziose agevolazioni finanziarie e di altra natura ed è loro consentito di sfruttare le terre e le risorse naturali che appartengono alla popolazione palestinese.

Alcuni governi europei (Danimarca, Francia, Regno Unito, Spagna e Svezia) hanno convocato gli ambasciatori israeliani per manifestare preoccupazione e condanna per gli ultimi sviluppi. Gli Usa li hanno definiti “controproducenti”.

Amnesty International ha nuovamente chiesto a Israele di fermare immediatamente la costruzione di tutti gli insediamenti e delle relative infrastrutture, come primo passo in vista del ritiro di tutti i coloni dai Territori palestinesi occupati.

 




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