lunedì 23 dicembre 2019 - Osservatorio Globalizzazione

Disuguaglianze in Italia: wage share e crescita economica

Torna l’approfondito lavoro di Matteo Samarani sul tema delle disuguaglianze in Italia con la seconda puntata, incentrata sul rapporto tra “wage share” e crescita economica nel Paese.

di 

 

Come emerso dall’analisi svolta nei punti precedenti gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da una progressiva riduzione della quota salari su Pil (c.d. wage share). La figura 5 mostra le dinamiche della wage share dal 1960 sino al 2016.

Figura 5, Quota salari su Pil 1960-2016, Fonte: Economia e Politica

Osservando i dati si osserva un generale andamento decrescente della quota salari su Pil, soprattutto negli anni che hanno preceduto la crisi del 2007-2008. Per quanto riguarda il caso Italia, l’indice ha fatto segnare una variazione negativa passando dal 69,4 del 1960 sino al 60,6 del 2016. Tuttavia, i dati nascondono aspetti rilevanti: gli elevati guadagni dei CEO e dei top managers rientrano nei redditi da lavoro e sono quindi inclusi nel calcolo della wage share. L’aumento delle retribuzioni dei top managers nel periodo del neoliberismo e della finanziarizzazione dell’economia ha smorzato la caduta della wage share. Infatti, escludendo le retribuzioni del top management si assisterebbe a una caduta ancora più pronunciata della quota del lavoro sul Pil (Canelli & Realfonzo, 2018).

Oltre ad avere impatti dal punto di vista redistributivo la caduta dei redditi da lavoro su Pil ha come conseguenza degli effetti non indifferenti sulla crescita economica. Dal punto di vista teorico esistono due visioni differenti sull’argomento: i modelli economici ortodossi, appartenenti alla visione neoliberista, e quelli eterodossi, di ispirazione principalmente keynesiana.

Per quanto riguarda la visione ortodossa essa si concentra sugli aspetti positivi che derivano dalla moderazione salariale. In tali modelli vige infatti un postulato fondamentale noto in letteratura come legge di Say secondo la quale la domanda segue sempre l’offerta. Questo fa si che una riduzione dei salari migliori la competitività delle imprese andando da un lato ad aumentare le esportazioni nette, mentre dall’altro portando ad un incremento della profittabilità degli investimenti. 

La letteratura eterodossa, di ispirazione principalmente keynesiana, rigetta la suddetta legge di Say attribuendo un ruolo fondamentale alla domanda aggregata nel determinare il livello della produzione aggregata. Seguendo questo approccio un incremento salariale può avere effettivi positivi in quanto incidendo sul potere d’acquisto alimenta, attraverso il canale dei consumi, la domanda aggregata. Al contrario, un eventuale taglio dei salari riduce i consumi e tale riduzione è conseguente al principio Kaldoriano secondo cui la propensione marginale al consumo dei lavoratori è maggiore rispetto a quella dei capitalisti.

Per analizzare gli effetti di una variazione della quota salari su Pil nel contesto dell’economia italiana e ricavarne i relativi suggerimenti di policy si è scelto di attingere spunti da un lavoro empirico svolto da Rosa Canelli e Riccardo Realfonzo e pubblicato sulla rivista “Economia e Politica”. In tale lavoro i due economisti partendo da una versione rivisitata del modello di Bhaduri e Marglin del 1990 e analizzando attraverso strumenti econometrici le componenti della domanda aggregata, riescono a dare dei buoni suggerimenti sui possibili effetti di una variazione della wage share.

L’idea di base che fonda il suddetto lavoro di Bhaduri e Marglin, anche se di ispirazione keynesiana con conseguente rilevanza affidata al ruolo della domanda aggregata, cerca di combinare gli effetti ortodossi ed eterodossi di una variazione della quota salari su Pil: in tale schema teorico i consumi aumentano al crescere della wage share mentre gli investimenti e le esportazioni nette si riducono al suo aumentare. Nel dettaglio, l’aumento della wage share comprime i profitti, limita le possibilità di autofinanziamento delle imprese e quindi riduce gli investimenti. Allo stesso tempo, l’aumento della wage share, accrescendo i costi di produzione delle imprese, riduce il grado di competitività nei mercati internazionali e, conseguentemente, determina una caduta delle esportazioni e un possibile aumento delle importazioni (Canelli & Realfonzo, 2018). A seconda delle reazioni delle componenti della domanda aggregata a seguito di una variazione della wage share si individua il c.d. regime di accumulazione del paese analizzato: esso può risultare wage-led oppure profit-led, a seconda che sia trainato dai salari o dai profitti. In altre parole, un regime di accumulazione viene definito wage-led se esiste una relazione positiva tra la wage share e la produzione aggregata, mentre viene definito profit-led qualora tra le variabili emerga una relazione negativa.

Il lavoro di Canelli et al. Analizza empiricamente tutte le varie componenti della domanda aggregata italiana ossia: consumi (C), investimenti (I), spesa pubblica (G) ed esportazioni nette (NX).

3.1) CONSUMI

La stima empirica dei consumi viene elaborata dagli autori nella seguente forma:

Dove nella formula le variabili rappresentano rispettivamente profitti e salari.

I valori empirici emersi dall’analisi, relativa al periodo 1960-2016, delle elasticità dei consumi al salario e al profitto sono riportati nella tabella 1.

Tabella 1, analisi empirica delle elasticità dei consumi al salario e al profitto

Legenda: * indicano la significatività

I numeri mostrano come i consumi italiani sono più sensibili alle variazioni del salario rispetto alle variazioni del profitto, infatti l’elasticità dei consumi rispetto ai salari è maggiore rispetto all’elasticità dei consumi rispetto ai profitti ( 0,597 > 0,288).

I risultati dello studio empirico in merito ai valori della propensione marginale al consumo dei lavoratori e dei capitalisti, sempre per il periodo compreso tra il 1960 e il 2016, sono invece rappresentati nella tabella 2.

Tabella 2, analisi empirica delle propensioni marginali al consumo dei lavoratori e dei capitalisti

I dati suggeriscono che la propensione marginale al consumo dei lavoratori (w) è pari a 0,859 mentre quella dei capitalisti (pi greco) è 0,346. La differenza tra questi valori () quantifica l’effetto di una redistribuzione del reddito sui consumi: una redistribuzione dell’1% dai profitti ai salari genera un aumento dei consumi pari a 0,51% del Pil. Possiamo quindi concludere l’analisi della funzione del consumo italiana affermando che esiste una relazione positiva tra la wage share e il consumo: al crescere della quota dei salari su Pil crescono anche i consumi. Tale risultato conferma quindi le ipotesi formulate.

3.2) INVESTIMENTI

La funzione degli investimenti viene stimata da Canelli e Realfonzo in questo modo:

Essa a livello teorico dipende positivamente dal prodotto (Y) e dal profitto (pi greco), mentre dipende negativamente dal tasso d’interesse reale (r).

I risultai empirici relativi alla funzione dell’investimento sono riportati nella tabella 3.

Tabella 3, analisi empirica delle determinanti della funzione dell’investimento

Legenda: *indicano la significatività.

I dati empirici mostrano un’elasticità dell’investimento rispetto al prodotto positiva e pari a 1,953. Tale indice, oltre ad essere in linea con le predizioni teoriche, è anche l’unico ad essere statisticamente rilevante, motivo per cui gli autori hanno deciso di escludere le altre due elasticità (al profitto e al tasso d’interesse) dal calcolo del contributo degli investimenti alla crescita.

3.3) ESPORTAZIONI NETTE

L’altra componente fondamentale per comprendere il regime di accumulazione italiano è l’analisi empirica delle esportazioni nette (NX) che vengono calcolate come differenziale tra esportazioni e importazioni. Canelli e Realfonzo, prima di passare all’analisi delle suddette componenti della domanda aggregata, hanno cercato di stimare le reattività dei prezzi domestici (P) e dei prezzi delle esportazioni (Px) al costo unitario del lavoro (ULC). Infatti tali indici risultano fondamentali dato che il livello di esportazioni e di importazioni dipende strettamente dalla competitività dei beni nazionali rispetto a quelli esteri. Le stime dei suddetti valori sono rappresentate nella tabella 4.

Tabella 4, stima elasticità dei beni domestici e delle esportazioni rispetto al costo del lavoro

Legenda: *indicano la significatività.

Per quanto riguarda le esportazioni (X) esse sono state stimate, per il periodo 1960-2016, dai due economisti nella seguente forma:

Esse quindi dipendono, a livello teorico, positivamente dal prodotto estero (Yw) e negativamente dal rapporto tra il prezzo delle esportazioni e il prezzo delle importazioni, rapporto che rappresenta un indice di competitività: infatti al crescere di tale rapporto, che può crescere per esempio per un incremento del prezzo delle esportazioni, la produzione esportata si riduce.

I risultati empirici relativi alle elasticità delle esportazioni rispetto al prodotto mondiale e all’indice di competitività sono riportate nella tabella 5.

Tabella 5, stima elasticità delle esportazioni al prodotto mondiale e al rapporto tra prezzi esportazioni e prezzi importazioni

Legenda: *indicano la significatività.

Viene confermata quindi la predizione teorica secondo cui le esportazioni dipendono positivamente dal Pil mondiale e negativamente dall’indice di competitività.

Le importazioni vengono invece descritte nel seguente modo:

secondo lo schema teorico vengono quindi a dipendere positivamente sia dal reddito nazionale (che dal rapporto tra i prezzi domestici e il prezzo delle importazioni, indice che indica la competitività dei beni nazionali rispetto ai beni importati.

Le stime delle elasticità delle importazioni rispetto al prodotto nazionale e al suddetto indice di competitività sono rappresentate nella tabella 6.

Tabella 6, stima elasticità delle importazioni al prodotto nazionale e al rapporto tra prezzi domestici e prezzi dei beni importati

Legenda: *indicano la significatività.

Per quanto riguarda invece le esportazioni nette gli autori hanno rielaborato i dati presentati da Canelli e Realfonzo al fine di mostrare gli effetti di una variazione della wage share sulle esportazioni, sulle importazioni, sulle esportazioni in percentuale del Pil, sulle importazioni in percentuale del Pil e sulle esportazioni nette in percentuale del Pil. I risultati vengono mostrati nella tabella 7.

Tabella 7, effetti di una variazione della wage share sulle esportazioni nette

Dai dati emerge quindi che una redistribuzione del reddito di un punto percentuale a favore del lavoro riduce le esportazioni nette per una grandezza pari allo 0,06% del Pil. Anche in questo caso le predizioni teoriche sono risultate verificate.

3.4) EFFETTI COMPLESSIVI

Gli effetti complessivi di una variazione della wage share sulla domanda aggregata e sul reddito nazionale sono riportati invece nella tabella 8.

Tabella 8, Effetti totali in % de Pil di una variazione percentuale della wage share

L’indagine empirica effettuata, nell’arco temporale 1960-2016, evidenzia i seguenti risultati: i) un incremento di un punto percentuale della wage share porta ad un incremento dei consumi per una grandezza pari allo 0,51% del Pil; ii) dal lato degli investimenti lo studio non ha mostrato dati statisticamente soddisfacenti; iii) un incremento di un punto percentuale della wage share riduce le esportazioni nette di 0,06% del Pil; iv) un incremento di un punto percentuale della wage share porta ad un incremento del Pil pari allo 0,45%.

Da questi ultimi risultati emerge una relazione positiva tra la wage share e il prodotto interno lordo: infatti un incremento della wage share porta ad una riduzione delle esportazioni nette, ma tale riduzione è più che compensata dall’aumento dei consumi. L’Italia presenta quindi un regime di accumulazione wage-led.

2 – Continua

1 – Le disuguaglianze in Italia

Foto di tommaso picone da Pixabay 




Lasciare un commento