giovedì 4 agosto 2022 - Osservatorio Globalizzazione

Cristianesimo e società: dialogo con Fulvio Ferrario

Cristianesimo e società globale contemporanea. Intervistiamo su questi temi e sullo stato di salute della religione stessa, in particolare nella variante confessionale riformata, il teologo e professore ordinario di teologia sistematica presso la Facoltà valdese di teologia di Roma, Fulvio Ferrario.

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 Ferrario, autore di numerose pubblicazioni e collaboratore di Riforma.it, già Decano della Facoltà valdese di teologia è anche coordinatore della Commissione per le relazioni ecumeniche.

Quali sfide pone il mondo globale secolarizzato al cristianesimo?

Limitandomi alla situazione del Nord del mondo e in particolare dell’Europa, credo di poter dire che la cosiddetta secolarizzazione è diventata una vera e propria scristianizzazione: cioè i simboli fondamentali del cristianesimo, nonché le narrazioni bibliche costitutive della tradizione occidentale, sono ormai incomprensibili per una percentuale significativa della popolazione europea. La fede cristiana dunque, specie nella sua espressione protestante, rischia di diventare, nel giro di pochi decenni, residuale. Per chiese ancora abituate a pensarsi come maggioritarie, pur non essendolo più da un pezzo, si tratta di una sfida enorme, alla quale esse appaiono del tutto impreparate.

Quali domande, per converso, pone il cristianesimo a questo secolo? E all’uomo di questo secolo soprattutto…

Non saprei dire che cosa la chiesa domandi al mondo e, in ogni caso, non credo sia importante. La domanda della quale la chiesa è responsabile è posta ad essa stessa e al mondo in egual misura, da parte di Gesù: “Voi, chi dite che io sia?”

Diceva Kierkegaard che dove finisce la fede inizia la religione. In un’epoca come questa, che pare contraddistinta da un potente individualismo che senso assumere è che prospettive apre, per le chiese, questa affermazione?

Non saprei rispondere. La distinzione (o addirittura la contrapposizione) tra fede e religione oggi gode di cattiva stampa, dopo i grandi successi degli anni ‘60 e ‘80 del secolo scorso. Per tale ragione eviterei di porla al centro del dibattito, richiederebbe troppo precisazioni e riflessioni preliminari. Credo però sia importante, specie nei dibattiti detti “interreligiosi”, mantenere alta la vigilanza nei confronti del potenziale di intolleranza delle religioni e della religione. La vecchia storiella, che definisce “inautentica” la religione violenta (mentre quella “autentica”, cioè la nostra, sarebbe buona per definizione), è troppo banale per risultare credibile, anche se diversi guru religiosi, alcuni anche molto ascoltati, la riciclano quotidianamente.

In merito al tema del multiculturalismo e del dialogo interreligioso si può parlare di una specificità del percorso delle chiese riformate? Ed esiste una convergenza su questi temi con il corso che pare aver intrapreso la Chiesa Cattolica con il pontificato di Francesco?

Multiculturalismo e dialogo interreligioso sono temi completamente diversi. La Comunione delle Chiese riformate è altamente multiculturale e anzi, si può dire che il punto di vista europeo – nordamericano sia oggi minoritario. Il Sud globale è portatore di domande e proposte molto diverse da quelle che per noi sono centrali.

Per quanto riguarda il dialogo interreligioso, le situazioni e le posizioni sono trasversali rispetto alle chiese. Non mi pare di poter riscontrare sostanziali novità in Francesco. Un’attenzione interreligiosa, che per la Chiesa cattolica poté apparire nuova, si riscontrava in Giovanni Paolo II: essa si inseriva però un una visione nella quale il pontefice romano tendeva a presentarsi come portavoce del Bene rappresentato dalle religioni: il Capo degli Uomini Buoni, come ironizzò una volta lo scrittore Stefano Benni.

Religione e politica. Come le chiese riformate leggono e affrontano la situazione attuale di guerra? Le diverse posizioni tra confessioni cristiane hanno ragioni politiche o c’è una ragione dottrinale? La butto lì (mi perdoni l’espressione)… la pretesa di universalità

Su questo punto, le posizioni sono trasversali rispetto alle confessioni (occidentali, perché l’Ortodossia, specie ora, è altra storia), anche se l’ufficialità della Chiesa cattolica è largamente condizionata dal vocabolario papale, che intende presentarsi come pacifista. La questione, come sempre e al di là delle etichette dottrinali (“guerra giusta” ecc.), riguarda la legittimità di principio o meno dell’impiego dello strumento militare in situazioni estreme. Dal punto di vista pratico, la discussione intracristiana è poco rilevante, poiché le scelte di fondo vengono operate indipendentemente dalle chiese. Il cristianesimo da parte sua, ha sempre accolto le due anime: quella che ritiene che lo strumento militare vada lasciato al mondo irredento, e quella che invece pensa che l’assunzione di una responsabilità politica nella società richieda anche gli strumenti del caso, che comprendono quello militare.

La Chiesa Valdese è sempre stata molto attiva sia nell’assistenza alle persone in difficoltà che nell’accoglienza. Si può dire che il punto di forza della comunità valdese è questa giunzione tra prassi e messaggio evangelico?

Credo che il rapporto tra confessione e prassi sia centrale per la fede come tale e non costituisca in alcun modo una specificità valdese. Se e in che misura la chiesa della quale faccio parte testimoni in modo significativo questo rapporto, non tocca a me valutare.

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