venerdì 19 marzo 2021 - Osservatorio Globalizzazione

Contro l’autorazzismo: unire gli italiani dopo aver unito l’Italia

Questa settimana ricorrono i 160 anni dalla proclamazione dell’unità d’Italia. Come a dire, l’intera esistenza di due persone vissute l’una dopo l’altra. Dal punto di vista storico, tuttavia, non si tratta di un periodo così lungo ed è forse anche per questo che ancora oggi noi italiani paghiamo certe difficoltà strutturali nel nostro essere Stato.

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Dalla famosa frase attribuita a Massimo D’Azeglio “S’è fatta l’Italia, ma non si fanno gli Italiani”, di sicuro ci sono stati molti passi avanti, però un autentico spirito di unità nazionale a tratti sembra ancora mancare, soppiantato da una certa dose di individualismo, di anarchia e dall’estrema tendenza a dividersi in fazioni, tutti aspetti che sembrano atavici nella popolazione italiana. Fattori che inoltre tendono a favorire le interferenze esterne, peraltro esplicitamente (e sciaguratamente) perseguite da una grossa fetta della nostra classe dirigente in un’ottica di disciplinamento del Paese, per quello che è stato definito come “vincolo esterno”.

Volendo guardare le cose in un’ottica pessimistica, partendo da un’altrettanto celebre espressione della Commedia dantesca (“Ahi serva Italia, di dolore ostello…”), le tendenze di fondo parrebbero essere rimaste grosso modo le stesse da secoli.

In aggiunta, noi italiani sembriamo essere campioni in quella particolare disciplina che è l’autodenigrazione. È sorprendente vedere quanti aforismi, inquadrabili in questa categoria, possono essere rintracciati con una veloce ricerca sulla rete. Alcuni, va detto, sono di eccezionale pregnanza satirica, ma comunque il dato rimane, ed è in effetti un qualcosa di comunemente riscontrabile: quante volte, per esempio, si sente parlare di “una cosa fatta all’italiana” per indicare una soluzione raffazzonata, contraddittoria e, magari, influenzata da logiche clientelari. Per non parlare di quanto sia facile ascoltare simili conclusioni in un qualsiasi dibattito da talk show che coinvolga esponenti del mondo politico, giornalistico, intellettuale, produttivo.

Però, a questo punto sorgono un paio di dubbi. Il primo è che siamo finiti in una sorta di cul-de-sac. Perché a forza di sentirsi dire che siamo un popolo di pigri, furbetti e corrotti, ci convinciamo magari che sia tutto cristallizzato e che l’unica soluzione possibile sia l’adattamento. Ma soprattutto: siamo sicuri che la realtà sia proprio questa? Perché, stando così le cose, dovremmo trovarci in una condizione disperata, da Quarto mondo.

E invece, nonostante i gravi problemi dell’Italia (che esistono), siamo comunque una nazione sviluppata, tra le prime dieci economie mondiali, con un benessere diffuso e dei servizi di discreta qualità, oltre che con un patrimonio storico enorme. Segno che, forse, all’estero le cose non vanno poi tanto meglio che da noi o che, quantomeno, possiamo contare su energie e risorse inaspettate. Altrimenti non riusciremmo a spiegarci passaggi fondamentali come il miracolo economico del dopoguerra o la stessa unità d’Italia.

Come ha giustamente ricordato in Parlamento Mario Draghi (sulla cui figura è comunque doveroso avere delle riserve), “Siamo una grande potenza economica e culturale”. E ancora: “Mi sono sempre stupito e un po’ addolorato nel notare come spesso il giudizio degli altri sul nostro Paese sia migliore del nostro”.

E allora chissà che, da questa gravissima crisi da pandemia che stiamo vivendo, riusciremo a trarre una consapevolezza nuova come comunità nazionale. In fondo, rispetto a quando, con spirito un po’ naïf, sventolavamo il tricolore e cantavamo le canzoni popolari durante le prime settimane di lockdown, si tratta solo di fare lo step successivo.

Certo, ci sono alcune complicazioni di non poco conto. Intanto, qui in Italia il concetto di “patria” è stato inquinato dal fascismo e di questo ci portiamo ancora dietro le scorie. La stessa fondamentale categoria di “interesse nazionale” è (purtroppo) guardata con sospetto da vasti settori di estrazione liberale e democratica, basti pensare all’utilizzo, spesso a sproposito, delle accuse di populismo e sovranismo (laddove occorre ricordare che l’art. 1, secondo comma, della Costituzione dice che “la sovranità appartiene al popolo”, un enunciato che in teoria è alla base della stessa democrazia).

Inoltre, l’esempio dovrebbe essere dato da una classe dirigente all’altezza, che in Italia purtroppo manca almeno dai tempi di Tangentopoli (con i cui effetti dovremo prima o poi fare i conti), altrimenti non ricorreremmo ciclicamente ai cosiddetti “governi tecnici”, che poi veramente tecnici non sono mai. Magari, il fatto che in questo momento sia in carica un esecutivo di unità nazionale per via di una situazione di oggettiva emergenza potrà in parte aiutare se non altro a ricomporre le divergenze reciproche, favorendo in questo modo un qualche spirito di coesione.

Di certo, sarebbe già un gran bel risultato se tutto ciò servisse a mitigare questo “clima infame” di sfiducia e disprezzo per noi stessi. Perché, se il razzismo è da idioti, lo è a maggior ragione l’autorazzismo.

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