martedì 3 maggio 2022 - David Lifodi

Colombia: i morti non parlano

Il libro di Flavia Famà ripercorre il conflitto armato colombiano, indagandone le cause e cercando di capire le ragioni che fanno della Colombia un paese in guerra permanente dove i diritti umani, civili e politici continuano a non essere rispettati.

“Ogni famiglia colombiana ha vissuto in prima persona l’orrore della guerra, se si considera che almeno un componente ne è stato parte attiva o vittima”: parte da questa amara considerazione Flavia Famà che, nel suo libro I morti non parlano, analizza in modo dettagliato gli oltre 60 anni di conflitto armato in uno dei paesi più violenti dell’America latina.

Sono molti, in Colombia, gli attori di una guerra che sembra non aver mai fine: dai movimenti contadini, indigeni, ambientalisti e sindacali, spesso vittime di violenza, ai gruppi guerriglieri, dai paramilitari ai gruppi del narcotraffico fino alle forze armate legali, ma troppo spesso legate agli stessi paras e protagoniste a loro volta di efferate azioni repressive.

L’interesse dell’autrice per la Colombia avviene a seguito di un viaggio realizzato con l’associazione Libera nel 2014. Figlia dell’avvocato catanese Serafino Famà, assassinato dalla mafia nel 1995, Flavia approfondisce alcuni aspetti chiave nella storia del paese, a partire dal ruolo dei paramilitari die strema destra delle Autodefensas Unidas de Colombia (Auc), capitanate dall’ex narcotrafficante Salvatore Mancuso, e dei loro rapporti con la ‘ndrangheta, che non hanno impedito all’ex presidente Uribe di stringere con loro una vera e propria alleanza.

Dal 1948 ai giorni nostri, in Colombia la violenza la fa da padrona. Il punto principale individuato dall’autrice che ha fatto deflagrare il conflitto è l’omicidio di Jorge Eliécer Gaitán, il candidato alle presidenziali e sostenitore della riforma agraria ucciso il 9 aprile 1948 da cui ebbe origine il Bogotazo.

Dietro all’uccisione di Jorge Eliécer Gaitán potrebbero esserci stati addirittura gli Stati uniti, che del resto hanno ricoperto un ruolo significativo sia nell’attuazione del Plan Colombia sia nell’individuare Bogotà come baluardo contro la diffusione dei movimenti guerriglieri sia contro governi non graditi alla Casa Bianca, come tutti quelli bolivariani che si identificano nel socialismo del XXI secolo.

Attraverso un lavoro rigoroso condotto sul campo, Flavia Famà indaga sulla nascita dei gruppi guerriglieri, sui molteplici colloqui di pace spesso naufragati (anche per le pressioni delle multinazionali), compresi gli ultimi promossi dall’allora presidente Santos, rimasti in gran parte lettera morta prima che l’attuale mandatario Duque lavorasse per renderli del tutto inefficaci nel solco dell’uribismo. Famà ripercorre lo sterminio dei militanti di Unión Patriótica, racconta le storie di persone che hanno avuto i familiari uccisi o torturati dallo Stato o dai paramilitari, ma soprattutto denuncia con forza il caso dei falsos positivos, scoppiato nel 2008, ma spesso riemerso negli anni successivi, quando l’esercito colombiano si rese responsabile dell’uccisione di civili spacciati per guerriglieri eliminati in combattimento.

Scrive Flavia Famà a proposito dei casi dei falsos positivos: «Quando vennero trovati i primi cadaveri dei ragazzi che fino a quel momento risultavano desaparecidos si capì subito che qualcosa non andava. I militari, nella maggior parte dei casi, li torturavano, li uccidevano e poi li travestivano con le uniformi dei guerriglieri, ma spesso i fori nei vestiti non corrispondevano ai proiettili sul corpo o le scarpe avevano numeri differenti un piede dall’altro oppure ancora le armi erano finte».

L’affresco della Colombia di Flavia Famà, come un piccolo mosaico contenente molteplici storie, si conclude così: «Forse solo il tempo ci consegnerà la verità su tutto il sangue che scorre nelle terre colombiane».

Eppure, nonostante una politica criminale e antidemocratica condotta deliberatamente e quotidianamente in Colombia e il coinvolgimento delle imprese nelle violazioni dei diritti umani (puntualmente denunciato dall’autrice), ci sono anche delle voci che permettono di guardare al futuro con un po’ di speranza. Tra loro, la Comunità di pace di San José de Apartadó e la sua resistenza non violenta, le madres di Soacha che non si arrendono all’orrore dei falsos positivos, i volontari dell’Operazione Colomba e delle Brigate internazionali di pace e tutti quei colombiani che cercano di difendere quotidianamente il loro territorio e, proprio per questo motivo, sono lottatori sociali imprescindibili.




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