martedì 11 febbraio 2020 - Osservatorio Globalizzazione

Cina-Usa: la battaglia dei giganti

Oltre i dazi, la sfida Cina-Usa è a tutto campo. E fondamentalmente la contesa geopolitica, economica e strategica passa per il controllo delle grandi rotte di comunicazione digitali, commerciali e infrastrutturali che determinerà gli equilibri di potenza del XXI secolo.

“Peace”, in inglese, significa “pace”, questo è noto. Ma non solo: Peace è anche l’acronico di “Pakistan and East Africa Connecting Europe”, uno dei più strategici progetti di Huawei Marine Network & Co., la branca della società di Shenzen dedita alla costruzione delle reti di cavi sottomarini deputate alla gestione del traffico dati intercontinentale. Un settore strategico e cruciale ora che il mondo si prepara a un’accelerazione nella trasformazione tecnologica delle comunicazioni, all’ascesa del 5G e alla diffusione massiccia dell’intelligenza artificiale nei processi produttivi. E anche uno dei nervi tesi della rivalità globale tra Cina e Stati Uniti.

“La connettività” – ha scritto l’analista indiano Pharag Khanna nel suo saggio Connectographyha sostituito la divisione come nuovo paradigma dell’organizzazione globale. La raffigurazione delle nostre infrastrutture ci dice molto di più del funzionamento del mondo che non le cartine politiche con i loro confini. La vera mappa del mondo non dovrebbe rappresentare soltanto gli Stati, ma anche le metropoli, le autostrade, le ferrovie, le pipeline, i cablaggi per Internet”. La globalizzazione, smaltita l’utopia di fine XX secolo, ha rafforzato il conflitto tra potenze e le logiche della strategia, della geopolitica, della geoeconomia. I gangli vitali del mondo sono, sempre di più, infrastrutturali. E nella sfida tra Cina e Stati Uniti, che potrebbe segnare in profondità il XXI secolo.

Graham Allison, esperto statunitense di relazioni internazionali, ha affrontato il tema della rivalità sino-americana in Destinati alla guerra, ponendo al centro, con una serie di opportuni paragoni storici, il tema della “trappola di Tucidide”, ovvero del rischio di scontro diretto, armato e risolutore tra la potenza egemone desiderosa di conservare la sua posizione di forza (nel caso gli Stati Uniti) e lo sfidante in rapida ascesa, come negli anni è stata l’arrembante Cina di Xi Jinping. Allison non esclude che il rischio di uno scontro aperto possa risolversi in una situazione di equilibrio competitivo: tuttavia è bene ricordare che l’era presente è caratterizzata da un’amplificazione a trecentosessanta gradi delle potenziali fonti di scontro e conflittualità. Ovvero la “trappola di Tucidide” potrebbe scattare anche prima che le forze di Cina e Stati Uniti siano venute a diretto contatto. Attivandosi, ad esempio, asimmetricamente laddove la rivalità tra le due superpotenze si fa più intensa, celata sotto forma di guerra economica. Economia che nel gioco delle grandi potenze si dimostra essere ancillare, e non dominante, alla politica e utilizzata come strumento d’offesa.

Non a caso, numerosi analisti e commentatori non centrano al completo il punto laddove parlano della guerra dei dazi scatenata da Donald Trump, ora depotenziata da una temporanea tregua,come il fronte principale della crisi bilaterale. Il braccio di ferro commerciale architettato dai due pretoriani di Trump, Bob Lighthizer e Peter Navarro, è sì importante, ma non è il terreno decisivo su cui Cina e Stati Uniti si concentrano. I due Paesi duellano per ridisegnare la mappa degli equilibri di potere su scala mondiale: e qui torniamo al campo della connettività, delle reti di cui l’infrastruttura Peace è una parte, così come lo sono i progetti infrastrutturali della “Nuova Via della Seta” a trazione cinese, le rotte commerciali marittime garantite dalla pax americana e dal controllo statunitense degli oceani e i traffici dati scambiati attraverso cavo, trasmissione wireless o scambio satellitare. Ovvero al terreno di confronto geopolitico e geoeconomico su cui va in scena una vera e propria battaglia tra giganti.

Da un lato gli Stati Uniti, superpotenza tra terra e mare presi nel dilemma della gestione della globalizzazione da essi plasmata, tra il timore della sovraestensione (overstretch) e i contraccolpi interni dei cambiamenti dell’economia globale. Impossibilitati a rinnegare il rango imperiale e divisi al loro interno su una serie di faglie politiche, economiche e sociali che attraversano il Paese sino ad arrivare sulle rive del Potomac, negli apparati di potere di Washington. Divisi su tutto fuorché sul nome del rivale numero uno: la Cina. Stato-civiltà che vive la sua ascesa come un ritorno al legittimo rango di prima potenza al mondo e di protagonista della storia che ha conosciuto un’eclisse nel “secolo delle umiliazioni” compreso tra le guerre dell’oppio del XIX secolo e la vittoria di Mao Zedong e dei comunisti nella guerra civile nel 1949 e nella successiva fase di consolidamento della Repubblica Popolare. Intenta a plasmare una strategia globale che ha anche importanti risvolti di politica interna.

Facendosi artefice delle vie della seta e della connettività Pechino mira a raggiungere e consolidare, per la prima volta nella storia, l’obiettivo strategico a lungo anelato dagli imperatori: la coesione completa del suo territorio, partendo dai vasti territori ai confini occidentali e meridionali storicamente abitati da popoli estranei alla maggioranza Han (Xinjiang e Tibet) e arrivando sulle rive del Mar Cinese Meridionale per sciogliere i nodi di Hong Kong e Taiwan. “Tutto sotto il cielo”. Non a caso gli scenari interni o periferici su cui, a più riprese, Washington ha tentato di intervenire per frustrare le ambizioni unitarie cinesi.

Una sfida globale tra due potenze che amano pensarsi universali. L’eccezionalismo americano contro la riscoperta da parte di Xi Jinping del “mandato celeste” degli imperatori di quello che si autodefiniva, e si autodefinisce tuttora, il “Paese di Mezzo”. Una sfida che avvolge e coinvolge l’intero pianeta, come le reti e le rotte su cui si gioca il braccio di ferro tra Cina e Stati Uniti.

Le vie della seta sfidano l’egemonia Usa?

In un’analisi pubblicata su queste colonne Amedeo Maddaluno ha fatto giustamente notare che le radici della supremazia globale degli Stati Uniti vanno ricercate nella svolta marittima di Washington che, a partire dal ragionamento di Alfred Mahan, si è concretizzata nel corso del XX secolo. Su scala globale, Washington ha diviso il pianeta in regioni di pertinenza delle flotte stanziate in punti strategici in maniera analoga a quanto fatto dalla Roma imperiale con il Mediterraneo all’epoca della pax romana.

La globalizzazione è, in grande misura, manifestata concretamente dall’estensione dei commerci garantiti, su scala planetaria, dalla volontà a stelle e strisce di mantenere aperte le rotte marittime, di presidiare i choke points, i “colli di bottiglia” affinchè mai venga meno tale prospettiva. Ragionamento in larga misura antieconomico, se si pensa ad esempio che Washington presidia lo stretto di Hormuz da cui proviene una quota consistente delle esportazioni di greggio mondiali destinata, in larga misura, all’Asia orientale e alla Cina sua prima rivale. Ma per Washington l’assicurazione sulla vita del commercio mondiale è garanzia di mantenimento dello status di superiorità geopolitica. Ovvero manifestazione plastica di una primazia in cui l’economia è mezzo, e non fine.

In questo contesto non è dunque del tutto corretto dire che la Belt and Road Initiative sia una sfida aperta e conclamata all’egemonia statunitense. Da un lato, infatti, le vie della seta si appoggiano su un braccio marittimo la cui disponibilità permanente Pechino non è ancora in grado di garantire, mancando della necessaria proiezione militare. Dall’altro, gli investimenti massicci nella connettività euroasiatica rappresentano sicuramente un tentativo di cambiare le regole del gioco. Di permettere a una quota sempre crescente dei commerci destinati e provenienti dalla Cina di fluire su terra, attraverso autostrade e rotte ferroviarie che evochino le carovaniere solcate dagli antichi mercanti ai tempi dei Giovanni da Pian del Carmine, dei Marco Polo, dello splendore dei palazzi turchesi di Samarcanda. Ma gli hub delle vie della seta, inevitabilmente, restano i porti: è sul mare che si gioca il destino della connettività geoeconomica, come la Cina ha capito visti i cospicui investimenti portuali e come ha fatto notare anche Lucio Caracciolo nell’editoriale di apertura al numero di Limes di luglio 2019:

“Oggi Pechino impernia la sua prospettiva strategica sul mare, non sulla terra. Si attrezza a smarcarsi con prepotenza nei Mari Cinesi, specie il Meridionale, epicentro delle contestazioni territoriali sulla proprietà di scogli e arcipelaghi di fondamentale valore in mari tanto stretti. Retrovia da assicurare in vista dell’espansione negli oceani, eretti in dottrina a “principali direttrice strategica difensiva”.

Del resto, gli oceani sono strategici anche per la presenza nei loro fondali delle rotte delle grandi infrastrutture di cavi sottomarini su cui si regge il traffico dati planetario. E che apre alla grande sfida della connettività tecnologica, la partita più aperta tra quelle che vede coinvolte Cina e Stati Uniti.

Una sfida in cinque dimensioni

Il digitale è fisico, l’immateriale è concreto. La base della filosofia confuciana che ha posto le radici della cultura dell’Impero di Mezzo potrebbe sintetizzare in un detto di questo tipo la profonda contraddizione tra la vulgata tipica riguardante l’innovazione e il mondo dei dati (azzeramento delle distanze, iperconnessione, creazione di un universo sempre più virtuale) e la realtà della battaglia quotidiana per la supremazia nell’infosfera. Battaglia che ha solide basi concrete nella corsa all’edificazione delle infrastrutture materiali e dei centri di controllo che gestiranno i traffici dati e, con essi, il controllo sulle informazioni più sensibili ad essi associate: transazioni finanziarie, comunicazioni riservate, ordini di dispiegamento per reparti militari, conversazioni quotidiane che disegnano minuto dopo minuto i trend globali fondamentali per l’intelligence.

La sfida si combatte su cinque dimensioni: a terra, aria e mare si devono aggiungere lo spazio e l’infosfera. E a primeggiare sarà l’attore capace di mettere in campo il maggior potenziale strategico e di coordinare al meglio progettualità, priorità tecnologiche, intuito e capacità di controllo politico e materiale sulle nuove infrastrutture che detteranno le linee guida del futuro. Le reti 5G sono sicuramente l’esempio più celebre di questo cambio di paradigma e il terreno di scontro in cui la sfida Cina-Usa si rivela essere partita per la supremazia. Nella guerra ai colossi cinesi, Huawei e Zte, Washington è pronta ad arruolare il big tech a stelle e strisce, ricordando la funzionalità della rete alla strategia globale statunitense, a difendere la sua egemonia sui flussi dati.

Progetti come Peace fanno paura a Washington perché ne minano le certezze, mettono a repentaglio un’architettura di potere ben congegnata e coordinata che riesce a mantenersi celata. Sanno ad esempio forse i cittadini della Sicilia di vivere in un’isola chiave per le telecomunicazioni globali e per la strategia Usa, sede dello strategico “Sicily Hub”? Pechino reagisce con la grammatica strategica spiegata nel Vangelo del conflitto asimmetrico, Guerra senza limiti, opera di due ufficiali cinesi, in cui si teorizza la necessità di colmare i gap di potenza tradizionali colmando i divari con l’avversario nei suoi punti di massima vulnerabilità o, alternativamente, nei settori di più recente emersione.

Su spionaggio, analisi dati e innovazione di frontiera, ovvero sulla connettività materiale ed immateriale del futuro e sulla sua capacità di penetrare al suo interno Pechino scommette per i prossimi decenni. Alcuni hanno definito sharp power questa strategia ibrida, che spinge Pechino a gareggiare per vincere nella corsa alla realizzazione della rete globale del 5G, a dominare le frontiere dell’intelligenza artificiale per garantirsi un dividendo politico-economico e a duellare con Washington anche in terreni di scontro “di frontiera” come quello dei supercomputer quantistici.

Come ha scritto su Atlante l’analista Alessandro Aresupartendo proprio da un’analisi sul tema dei computer quantistici, “Nessuna tecnologia è neutra. È sempre posseduta da qualcuno, con diversi gradi di accesso degli altri, con diverse possibilità di influenza, e pertanto con implicazioni sui rapporti di potere. La corsa alle capacità quantistiche” da parte della Cina “si interseca con processi che segnano la nostra epoca: gli investimenti cinesi sui conglomerati tecnologici, sull’ecosistema dell’innovazione e sulle infrastrutture spaziali; la reazione degli Stati Uniti attraverso gli strumenti di geodiritto, l’allargamento del dominio della sicurezza, il rapporto con i giganti digitali americani”.

Due giganti e un nano

La partita Usa-Cina per dettare le regole della connettività del futuro è una battaglia tra giganti, in cui sia Pechino che Washington impiegano un capitale considerevole in termine di risorse e programmazione politica. E pensare che trent’anni fa c’era chi profetizzava la fine di una storia che sembra accelerare anno dopo anno.

L’ambizione di supremazia di Cina e Stati Uniti fa sentire questa nostra Italia e in generale l’Europa intera fuori dal mondo, su un altro pianeta, rendendo gli analisti più attenti esterrefatti per la conclamata incapacità di capire la realtà circostante. Lo ha scritto bene Pierluigi Fagan di recente: “L’Europa è rimasta l’ultima Thule dell’utopia antipolitica, convinta che ormai è solo una faccenda di mercati e valute. […] Utopia che diventa distopia e assurdo storico nel mentre s’instaura un nuovo ordine mondiale in cui grandi potenze non solo economiche, sgomitano per stabilire i rapporti di gerarchia per i prossimi trenta anni. In Europa si leggono questi lunghi elenchi di conflitti e problemi crescenti come se si stesse leggendo la gazzetta di un altro pianeta”. Guardando al duello Cina-Usa, come non concordare?

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