giovedì 27 novembre 2014 - Phastidio

Cavallini di Troia: l’approvazione del Jobs Act

Approvato due giorni fa alla Camera il ddl delega Lavoro, per gli amici Jobs Act o come diavolo si scrive nel nostro provincialismo un po’ straccione, pare non essere affatto chiaro agli italiani che questo è solo l’antipasto della trasformazione radicale del nostro mercato del lavoro. Con i decreti attuativi giungeranno molte sorprese, ed altre iniziative legislative appaiono pressoché inevitabili. Meglio quindi farsi un’idea dello scenario ad oggi più probabile.

I decreti delegati o attuativi, si diceva: quello sarà il vero vaso di Pandora da aprire. Prendiamo la riforma dell’articolo 18 e la stessa struttura del contratto a tutele crescenti: nella formulazione prevista contribuiscono ad accentuare la segmentazione del mercato del lavoro e potenzialmente a frenare anche la mobilità tra impieghi. Quanti lavoratori riterranno infatti di dimettersi da posizioni a tempo indeterminato “vecchio stile” e molto protettive per migrare verso altre dove il tempo indeterminato è poco più che una finzione? E cosa chiederanno a compensazione, in caso siano dotati di sufficiente forza contrattuale?

Ecco quindi che serve tutta una serie di azioni di “incentivo” normativo ed economico per tentare di estendere erga omnes il nuovo tempo indeterminato “light”. Ieri sul Sole, in un articolo di Giorgio Pogliotti, iniziamo a prendere confidenza con uno degli innumerevoli piccoli cavalli di Troia funzionali a questa estensione del nuovo impianto contrattuale: quello che il responsabile Economia e Lavoro del Pd, Filippo Taddei (e non solo lui), definisce come “incentivo alla crescita dimensionale delle imprese”. 

Come sappiamo, moltissime aziende italiane sono sotto i 15 dipendenti, e questo le esonera (secondo la normativa ancora vigente) dalla quasi totalità delle protezioni reali ai lavoratori, in termini di reintegra sui licenziamenti individuali illegittimi. Come fare per incentivare la crescita dimensionale oltre le 15 unità (ammesso che tale soglia sia realmente determinata dal vincolo dell’articolo 18), evitando di estendere a chi è già assunto la protezione reale della reintegra? Con una cosa di questo tipo:

Secondo l’orientamento del governo, un’impresa con 15 dipendenti che dovesse fare una nuova assunzione, in caso di licenziamento illegittimo invece di dover applicare per i vecchi dipendenti la tutela reale dell’articolo 18, potrebbe attuare per tutti e 16 i dipendenti le nuove regole sui licenziamenti.

In pratica, i dipendenti “vecchi”, cioè quelli già presenti in azienda, non godrebbero di un aumento di protezione reale al superamento della soglia critica di 15 dipendenti ma resterebbero con l’attuale status da impresa sotto la soglia. Per effetto di ciò, anche senza cambiare lavoro, e quindi senza diventare “nuovi assunti”, sarebbero pienamente equiparati a coloro che entreranno in azienda dopo l’approvazione definitiva del Job Act. “Nuovi assunti” honoris causa, diciamo.

Questo è solo il primo esempio di quello che sarà messo in campo dall’esecutivo per spingere l’intera popolazione italiana di lavoratori dipendenti a finire nel nuovo contratto a “tutele crescenti” e licenziamenti individuali “agevolati”. Serviranno enormi sforzi di fantasia ma questa appare una strada obbligata, nell’economia di questa riforma. Perché diversamente, come detto, la frammentazione e rigidità del mercato italiano del lavoro sarebbero ulteriormente accentuate.

Poi c’è un altro punto, che il Job Act non tratta, anche perché dominio negoziale delle parti sociali, ma verso il quale si tende ad andare fatalmente (rimarchiamo l’avverbio, tornerà utile): l’eliminazione del contratto nazionale di lavoro per settore produttivo, sostituito dalla integrale contrattazione aziendale, sia per la parte economica che per quella normativa. Solo con decentralizzazione completa della contrattazione collettiva ed estensione all’intero universo dei lavoratori dipendenti del nuovo contratto a tutele crescenti si potrà affermare di aver fatto una riforma organica. Diversamente, replicheremo quanto accaduto al sistema pensionistico sino al 2012, quando la riforma Fornero ha messo la parola fine ad un ventennio ed oltre di riformette parziali, inclusa la Dini.

Quale cavallo di Troia utilizzare, per spostare interamente in azienda la contrattazione collettiva? Magari quanto fatto dalla Spagna un paio di anni addietro:

Riguardo la contrattazione collettiva, sarà data priorità a quella su base aziendale rispetto a quella settoriale o territoriale. Le aziende in crisi potranno evitare di aderire ad accordi territoriali o di settore. Alla scadenza di un accordo collettivo, sindacati ed imprese avranno due anni di tempo per rinnovare il contratto. Scaduto tale termine, cesseranno anche gli effetti di proroga di quello precedente, e tutto si azzererà.

Repetita iuvant: quanto scritto qui sopra rappresenta una previsione, e non necessariamente un auspicio.



3 réactions


  • (---.---.---.144) 27 novembre 2014 21:37

    Che il Jobs Act serva a svalutare il lavoro mi pare ovvio, come scoprire l’ acqua calda. Il punto è se questa politica faccia o non faccia gli interessi dei lavoratori e per rispondere bisogna tenere conto del contesto in cui i lavoratori oggi si trovano in Italia e in Europa.

    Di fatto i lavoratori italiani ed europei sono in conpetizione con i lavoratori a bassissimo costo e bassissimi diritti dei paesi cosiddetti emergenti, come Cina, India, Bangladesh e all’interno della comunità europea anche Romania e Polonia. Questa situazione noi la accettiamo di fatto tutti i giorni quando compriamo un paio di mutande Made in China, un computer Made in Korea, una automobile in teoria italiana o tedesca ma di fatto in gran parte costruita fuori dall’ europa ecc. ecc. Se questa è la situazione noi non possiamo trattenere i posti di lavoro in Italia e in Europa a meno che non svalutiamo i nostri salari e diritti fino a renderli competitivi con quelli che oggi consideriamo schiavi. Anche in Germania dove si favoleggia degli stipendi degli operai da 2500 euro al mese, poi esistono 8 milioni di lavoratori da 500 euro al mese. Noi lavoratori europei non possiamo avere la moglie ubriaca e la botte piena, non possiamo aprire le frontiere alla concorrenza degli schiavi e poi lamentarci se dobbiamo lavorare come schiavi. Quindi delle due l’ una: 1) la globalizzazione è una schifezza e non possiamo accettare di competere con gli schiavi: cominciamo a sputtanare la globalizzazione, riparliamo di frontiere, parliamo di quanto fa schifo il WTO e come ammazzare il TTIP. 2) non possiamo modificare la globalizzazione e allora fa bene renzi a fare questa schifezza di jobs act e criticarlo è pura ipocrisia


    • (---.---.---.126) 28 novembre 2014 11:08

      Lei fa un’analisi giusta ma arriva a conclusioni secondo me sbagliate.

      Certo, produrre un’automobile in Polonia o in Cina costa meno che in Italia, ma la colpa non è solo del costo del lavoro:

      - meno burocrazia
      - energia meno cara
      - minori tutele di ambiente eccetera
      - tassazione più bassa in generale, non solo sul lavoro

      E poi ci sono cose che non si possono delocalizzare o comprare dalla Cina o dalla Polonia, infatti abbiamo un esercito di artigiani che danno lavoro a tante persone.

      Il problema è serio e l’ultima cosa da fare è mettersi a competere coi cinesi. Quando i lavoratori saranno pagati un tozzo di pane e non avranno più diritti, avremo un mercato interno azzerato, preludio al terzo mondo (siamo già su quella strada), mentre i cinesi avranno ancora dalla loro tutto il resto: poca burocrazia, energia meno cara eccetera eccetera. E’ una battaglia persa in partenza. Renzi non sta cercando il meglio per l’Italia, ma il meglio per certe entità che vogliono spolpare l’Italia per poi rivolgersi altrove. Se proprio non si può (o non si vuole) fare altro, meglio reintrodurre i dazi e la moneta nazionale.


  • (---.---.---.126) 28 novembre 2014 11:11

    Aggiungo: ma secondo lei i cinesi sono ricchi e felici? E gl’indiani? Ricchi e felici? E noi vogliamo diventare come loro?


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