Caso Orlandi, perché gli inquirenti sospettavano di Mario Meneguzzi?
Il caso di Emanuela Orlandi potrebbe essere più semplice di quanto finora si è voluto far credere da media e mitomani che su questo giallo hanno costruito le loro fortune. Un mistero che potrebbe essere vicino a una svolta grazie a chi finora ha indagato su piste più realistiche rispetto alle versioni vatican-fobiche presentate da Pietro Orlandi, ormai star che cavalca le passerelle mediatiche da cui sembra non voler scendere, nonostante rivelazioni che si sono sempre risolte in una bolla di sapone.
Il nome di Mario Meneguzzi, marito di Lucia Orlandi, zia di Emanuela, sospettato della scomparsa della nipote, per Pietro Orlandi e famiglia è diventato un insulto di lesa maestà. Sospettato, certo, perché ognuno è innocente fino a prova contraria. Ma gli elementi finora raccolti non depongono certo a suo favore. Tanto per cominciare Mario Meneguzzi il giorno della scomparsa di Emanuela Orlandi non aveva un alibi a prova di bomba. Disse di trovarsi a Torano, vicino Rieti, ma nessuno può confermarlo. Fin da subito si attivò per cercare la nipote, ma con iniziative poco trasparenti. Si recò all’Ansa per far pubblicare l’annuncio della scomparsa di Emanuela ventilando l’ipotesi di un rapimento quando non c’era nulla che lo lasciava pensare. Riempì gli annunci sui quotidiani di dettagli fuorvianti. Mostrò di conoscere particolari sull’abbigliamento di Emanuela che Natalina non aveva citato nella denuncia di scomparsa. Divulgò sui manifesti che riempirono mezza Roma il numero di telefono di casa Orlandi senza prima consultarsi con gli inquirenti e spalancando le porte a una serie di mitomani, sciacalli e testimoni più o meno volenterosi che fornirono informazioni false e fuorvianti, finendo solo per inquinare le indagini.
Mario Meneguzzi non si limitò solo a far pubblicare gli annunci di scomparsa, ma assunse anche il ruolo di mediatore tra la famiglia Orlandi e i finti rapitori, cosa che non sarebbe stato necessario se Mario Meneguzzi, anziché divulgare il numero di casa Orlandi, si fosse limitato a divulgare il numero di polizia o carabinieri a cui indirizzare le telefonate di testimoni veri o presunti. Rapitori che non fornirono mai una prova che la ragazza fosse viva e si trovasse nelle loro mani, ma fecero ascoltare solo una registrazione vocale in cui Emanuela Orlandi, con voce pacata e tranquilla, come se stesse a un casting e non nelle mani di delinquenti, ripeteva sempre la stessa frase. Un audio che poteva essere stato fatto anche un mese prima della sua scomparsa ma che bastò per accontentare il Meneguzzi, il quale nemmeno pensò di chiedere di ascoltare la voce della nipote dal vivo per sincerarsi che fosse viva e stesse bene. Perfino il pm Giancarlo Capaldo, da sempre amante del rapimento, notò lo strano comportamento dello zio di Emanuela che ogni qualvolta rispondeva al telefono non mostrava mai segni di emozione, come se già sapesse che quelli non erano rapitori.
Pietro Orlandi lo ha definito persona fuori da ogni sospetto, ma le cose non stanno proprio così. Il pm Domenico Sica fu il primo a sospettare di lui. Il magistrato aveva saputo che Meneguzzi, capo ufficio della Camera dei Deputati, con importanti agganci politici e legami con i servizi segreti, aveva molestato sessualmente anche Natalina Orlandi, sorella maggiore di Emanuela, e che apparteneva a una combriccola parlamentare che avevano l’abitudine di approfittare del proprio ruolo per estorcere sesso alla dipendenti di Montecitorio o a chi ambita a entrarci. Forse, nel tentativo di raccogliere prove che lo inchiodassero alle sue eventuali responsabilità lo fece anche pedinare, ma l’uomo fu avvisato da un agente del Sisde e l’operazione andò in fumo. Anche la pm Margherita Gerunda non lo vedeva di buon occhio. Si era accorta che l’uomo pressava la Procura di Roma per sapere cosa stessero scoprendo gli inquirenti, cosa che la spinse a tenerlo lontano dalle indagini.
E poi c’è l'identikit tracciato da due pubblici ufficiali che riferirono ai magistrati di aver visto una ragazza simile a Emanuela Orlandi parlare con un uomo appena uscita dalla scuola di musica. Quel profilo era il ritratto sputato di Mario Meneguzzi. Un indizio incredibilmente ignorato dai magistrati che non si preoccuparono di confrontare quel profilo con gli adulti che ruotavano intorno al contesto amicale e parentale della giovane studentessa di musica. Una lacuna aggravata dal fatto che nessuno si premurò di sapere dov’era lo zio Mario mentre la nipote spariva nel nulla. Così come nessuno cercò di capire chi aveva ingaggiato e pagato l’avvocato Gennaro Egidio che sostituì Mario Meneguzzi nella presunta trattativa con gli inesistenti rapitori.
Ciò che colpisce è l’ira di Pietro Orlandi quando ha capito che i magistrati italiani stanno scandagliando la pista familiare per assicurarsi che l’orco che fece scomparire la sorella non si annidava nella cerchia vicina alla ragazza. Domenico Sica ne era certo: Emanuela scomparve dopo un incontro con “un adulto molto vicino alla ragazza”, riferendosi proprio a Mario Meneguzzi della cui colpa, secondo il pm Ilario Martella, il pm era più che convinto. E intanto, secondo quanto riporta il giornalista Tommaso Nelli, gli atti dell’inchiesta giudiziaria raccontano come Emanuela quella sera fu vista entrare in un Mercedes blu in Vaticano da alcuni testimoni oculari. Vera o falsa che sia questa testimonianza, c'è da notare un particolare curioso: Mario Meneguzzi era proprietario di tre vetture. Una di queste era proprio un Mercedes. Una coincidenza? Può darsi. Ma questi sono i fatti. Poi ognuno è libero di credere in ciò che vuole.