giovedì 6 novembre 2014 - UAAR - A ragion veduta

Brittany Maynard, quando la vita diventa condanna

Il glioblastoma è una forma di tumore del cervello che non lascia molte speranze, sia per quanto riguarda l’aspettativa di vita che, cosa ben più importante, per la qualità di quella che rimane da vivere. Oggi, grazie ai passi avanti della scienza medica, si riesce a vivere molto più che in passato; la media è di un anno e il 40% dei pazienti trattati con radioterapia e chemioterapia combinate arriva a due anni, ma questo non è necessariamente un bene perché gli effetti collaterali di queste terapie vanno semplicemente ad aggiungersi ai disturbi propri della fase terminale. Disturbi molto pesanti, che certamente impediscono di vivere una vita normale e che influiscono anche sulle capacità cognitive.

Brittany Maynard aveva 29 anni e un glioblastoma. Inizialmente le era stato diagnosticato un altro tipo di tumore, per il quale era stata sottoposta a intervento chirurgico di asportazione parziale del lobo temporale, ma a un controllo successivo il tumore è riapparso e la diagnosi è stata rivista. Considerato l’avanzamento del male e la giovane età di Brittany la prognosi è stata di appena sei mesi, durante i quali Brittany avrebbe dovuto imbottirsi di farmaci per contrastare gli insopportabili dolori. Nell’attesa della demenza. O forse no. Forse c’è un’alternativa, non semplice e immediata ma c’è.

La California, stato in cui Brittany viveva, come la maggior parte degli stati Usa non ammette il suicidio assistito, ma oltre il confine nord c’è l’Oregon e lì invece è ammesso. Naturalmente non può accedervi chiunque, occorre che sussistano determinati requisiti tra cui un’aspettativa di vita inferiore a sei mesi certificata da due diversi medici, e Brittany questi requisiti li aveva. Così lei e suo marito hanno deciso di trasferirsi in Oregon, con gli ovvi problemi per il lavoro del marito e con la necessità di cambiare medico. Ma il gioco è valso assolutamente la candela, Brittany aveva finalmente quelle pillole che le avrebbero consentito di porre fine alle sue sofferenze in qualunque momento avesse voluto.

Brittany non si è però limitata a ottenere quello che le serviva, è andata oltre. Avendo vissuto in prima persona le angosce, i dilemmi, le difficoltà, e tutto quello che una persona come lei, una che sa di avere davanti a sé pochi giorni di vita e molta sofferenza, è costretta ad affrontare, ha deciso di far sì che la sua testimonianza diventasse contributo per la lotta al diritto di non soffrire, di non vivere una vita insopportabile. Il diritto di morire con dignità, anche per chi non ha, come lei, le risorse e il tempo per riuscirci. Così, grazie al sostegno dell’associazione Compassion & Choices, ha dato vita a una campagna e un fondo a lei intitolati, nell’ambito della quale sono stati realizzati due video in cui lei racconta il suo dramma e annuncia la sua decisione. I risultati sono incoraggianti: il primo dei due video ha avuto oltre dieci milioni di visualizzazioni mentre il secondo ha superato i tre milioni in soli cinque giorni, ma ancora più significativa è la proporzione tra i “mi piace” e i “non mi piace”, che va da 10/1 a 8/1.

Naturalmente il partito dei no-choice a base cattolica non ha potuto fare a meno di reagire, ci mancherebbe altro, e per farlo ha ripreso la lettera che un seminarista di nome Philip, anch’egli trentenne americano con un cancro simile, ha scritto per Brittany quand’era ancora in vita. È chiaro che la sua decisione è stata invece quella di vivere fino alla fine, ed è altrettanto chiaro che questa scelta è rispettabile quanto quella contraria, ma il punto è che le due scelte non sono altrettanto rispettabili per tutti. Philip ha dalla sua il sostegno di chiunque, cattolici e laici, credenti e non credenti, e soprattutto quello di qualunque Stato del mondo, perché ovviamente non esiste uno Stato che uccida le persone che vogliono vivere. Per Brittany è valso il contrario. Lei non ha avuto tutti dalla sua parte. Sulla sua testa, come su quella della stragrande maggioranza della popolazione mondiale, pendeva un’irrevocabile condanna a vivere, a prescindere dalle eventuali circostanze avverse e dalla sua volontà. È per questo che ha dovuto cambiare residenza.

Ecco perché non possiamo essere d’accordo con Philip quando dice che la scelta di Brittany non è coraggiosa. Al contrario, è per quella di Philip che non ce ne vuole molto di coraggio, basta non fare nulla. Brittany non solo ha dovuto darsi da fare per riuscire nel suo intento, traslocando e spendendo denaro, ma si è pure attivata nella lotta per estendere a tutti la stessa possibilità. Qui sta il suo coraggio, il suo immenso altruismo. Altro che opzione “più concentrata su se stessa che sugli altri”. Parimenti non regge l’affermazione di Philip secondo cui “ogni giorno di vita è un dono e i doni possono essere tolti in ogni momento”. In realtà i doni non possono mai essere tolti, sarebbe estremamente scortese farlo. Possono invece essere messi da parte, o gettati via, quando non servono più o sono vecchi, senza per questo chiedere il permesso al donante. Perché i doni appartengono a chi li riceve.

 

Massimo Maiurana, tesoriere Uaar.



4 réactions


  • (---.---.---.85) 6 novembre 2014 18:12

    Quando ti senti sprofondare lentamente, con sofferenza, senti i tuoi familiari appartenenti ad un mondo del quale tra poco non farai più parte, quando credi in Dio e nel Suo Regno e non vedi l’ora di andarci e di porre fine alla tua sofferenza... ti chiedi perché. La risposta è che la sofferenza va evitata se si può, ma quando arriva, da credenti, è permessa da Dio per salvare un’anima chissà di chi, chissà dove. Il cristiano che sa amare come Cristo, morto in croce perché era l’unico modo per salvarci, accetta e affronta la sofferenza, come partecipazione alle sofferenze di Cristo e proprio per la salvezza dei lontani.


    • (---.---.---.234) 6 novembre 2014 19:24

      Vede.... il suo è un punto di vista che parte della fede. Come tale c’è o non c’è, e se non c’è, allora le questioni religiose sono solo una incivile prevaricazione. Ma anche se uno si sentisse comunque sorretto dalla fede, può essere che la si viva in modo diverso. La vita e la morte sono così compenetrate, si completano talmente a vicenda che accetto l’una e l’altra senza remore. Però se la morte in sè non turba certo i miei sonni, una vita da morta... quella sì che mai potrei accettare. Mi tuffo ancora ora nella vita con entusiasmo e passione, ho vissuto in modo che ha sorpreso anche me stessa sofferenze, interventi, limitazioni, notti cupe e infinite per il dolore incombente, ma ho sempre avuto spazio per la mia dignità e - in fondo - sono in pace con me stessa. Ho sicuramente ancora molto da dare, ma c’è un limite invalicabile che è personale e inviolabile. Una Terra di Mezzo che tutti devono accettare senza abbandonare. E’ giusto scegliere di abbeverarsi fino all’ultima goccia alla fonte della vita, quella che conosciamo, potendo contare sul supporto di tutti coloro che ci offrono il loro amore, ma perchè chi invece sceglie di abbeverarsi ad un’altra fonte che lui/lei considera vitale non può farlo senza dover impiegare le proprie energie a sopportare il mondo contro? Che ha da temere un credente dalla morte?

      M.Luisa

  • (---.---.---.234) 6 novembre 2014 19:26

    Vede.... il suo è un punto di vista che parte della fede. Come tale c’è o non c’è, e se non c’è, allora le questioni religiose sono solo una incivile prevaricazione. Ma anche se uno si sentisse comunque sorretto dalla fede, può essere che la si viva in modo diverso. 


    La vita e la morte sono così compenetrate, si completano talmente a vicenda che accetto l’una e l’altra senza remore. Però se la morte in sè non turba certo i miei sonni, una vita da morta... quella sì che mai potrei accettare. 

    Mi tuffo ancora ora nella vita con entusiasmo e passione, ho vissuto in modo che ha sorpreso anche me stessa sofferenze, interventi, limitazioni, notti cupe e infinite per il dolore incombente, ma ho sempre avuto spazio per la mia dignità e - in fondo - sono in pace con me stessa. 

    Ho sicuramente ancora molto da dare, ma c’è un limite invalicabile che è personale e inviolabile. Una Terra di Mezzo che tutti devono accettare senza abbandonare. 

    E’ giusto scegliere di abbeverarsi fino all’ultima goccia alla fonte della vita, quella che conosciamo, potendo contare sul supporto di tutti coloro che ci offrono il loro amore, ma perchè chi invece sceglie di abbeverarsi ad un’altra fonte che lui/lei considera vitale non può farlo senza dover impiegare le proprie energie a sopportare il mondo contro? Che ha da temere un credente dalla morte?
    M.Luisa

  • (---.---.---.168) 9 novembre 2014 19:06

    Scelta non condivisibile >

    Irragionevole e superfluo schierarsi dall’una o dall’altra parte. Sono prove terribili che la vita può riservare e che ognuno affronta e risolve in modo differente.

    C’è chi trova nella fede (o in altra convinzione) la forza di attaccarsi alla vita fino all’ultimo. All’opposto c’è chi decide di aprire la finestra e buttarsi nel vuoto o impiccarsi alla trave.

    L’eutanasia non ha nulla a che vedere con il "diritto di non soffrire, di non vivere una vita insopportabile e di morire con dignità".

    Porre fine alla propria esistenza è e resta una "scelta" personale, assolutamente non condivisibile. 


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