mercoledì 11 dicembre 2019 - Osservatorio Globalizzazione

Bolsonaro e la Cina, svolta geopolitica o necessità?

Nel corso dell’ultimo anno il continente sudamericano è stato un infuocato campo di battaglia nello scontro tra la volontà unipolare nordamericana di salvaguardia della propria egemonia globale e quelle forze che ambiscono alla costruzione di un ordine internazionale multipolare.

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 In questo contesto, l’azione della Casa Bianca si è contraddistinta per l’aspirazione ad imporre una sorta di nuova Dottrina Monroe che garantisca il controllo statunitense sul cosiddetto “patio trasero”. Se l’aggressione al Venezuela (ad oggi) non ha prodotto gli effetti sperati, nonostante il Southcom avesse preparato tale operazione nei minimi dettagli sin dall’anno prima (si veda il noto “Plan to overthrow the Venezuelan dictatorship” dell’ammiraglio Kurt W. Tidd), lo stesso non si può affermare per il “successo” boliviano. La Bolivia, insieme al Cile, è il più grande produttore mondiale di litio: minerale definito alla stregua di “petrolio del futuro” di cui la Cina controlla quasi il 60% della produzione mondiale. Dunque, non sorprende che una delle prime azioni del governo golpista provvisorio, oltre all’ormai tradizionale giuramento di fedeltà ad Israele, sia stata quella di annullare parte degli accordi commerciali presi dal governo precedente sullo sfruttamento della risorsa. A questi fronti “caldi”, tuttavia, negli ultimi mesi si è aggiunta un’inaspettata quanto preoccupante (per gli USA), apertura del Brasile di Bolsonaro alla Cina dopo le pesanti accuse che lo stesso odierno Presidente brasiliano rivolse al Paese asiatico durante la campagna elettorale. In questa breve analisi si cercherà di individuare i motivi che hanno spinto Jair Bolsonaro a mantenere di fatto lo status quo impresso dalle amministrazioni precedenti nei rapporti con la Cina; ed i motivi che hanno spinto quest’ultima a puntare sul Brasile per vanificare i piani nordamericani sul continente.

In molti ignorano il fatto che uno dei primi studi extra-occidentali sulla cosiddetta “guerra asimmetrica” sia attribuile a due ufficiali dell’aeronautica cinese. Nel loro Guerra senza limiti, i colonnelli Wang Xiangsui e Liang Qiao, sulla scia di quella tradizione cinese che arriva fino al celebre testo di Sun Tsu, affermarono come l’arte di guerra non si esplicasse solo sul campo di battaglia ma anche attraverso la costruzione del consenso e l’infiltrazione nell’economia del nemico. Il reale vincitore di una “guerra” (è bene ricordare che sin dalle “Guerre del Peloponneso” le guerre commerciali vengono considerate guerre a tutti gli effetti), nella prospettiva strategica cinese, è colui che evita lo scontro diretto disarticolando i mezzi in mano al nemico.

Così, nel momento in cui la strategia nordamericana nei confronti del Dragone continua a concentrarsi sulla “tradizionale” tattica della destabilizzazione periferica (in questa prospettiva sono facilmente ascrivibili i casi dello Xinjiang, del Tibet o, soprattutto, di Hong Kong dove ha fatto la sua comparsa anche la fanteria nazi-atlantista ucraina); l’impostazione geo-strategica cinese continua ad imporsi come un lento processo di logoramento dell’avversario che mira a scalzarlo dalla posizione egemonica acquisita in diverse aree del globo.

Le prove (evidenti) di questa strategia sono sotto gli occhi di tutti, ma pochi realmente sembrano attribuire ad esse l’importanza che meritano. Dunque, sarà bene farne almeno una sommaria elencazione. In questo senso, uno dei maggiori successi è stato quello ottenuto con l’Egitto di al-Sisi. Qui, il lavoro economico-diplomatico congiunto di Russia e Cina ha fatto in modo di distogliere il Paese con il più potente esercito arabo dalla partecipazione al progetto nordamericano di costruzione di una sorta di NATO araba. Sempre in area mediorientale, la Cina ha intessuto una fitta rete commerciale che ha portato diversi Stati della regione (molti dei quali tradizionali acquirenti del comparto industriale-bellico nordamericano) a puntare sulla tecnologia militare cinese (soprattutto nel campo degli aeromobili a pilotaggio remoto, meglio noti come “droni”).

Un’altra area di rapida penetrazione cinese è quella dell’Europa orientale. L’obiettivo in questo caso è quello di scongiurare i progetti nordamericani di costruzione di un cordone sanitario ai confini della Russia sfruttando la russofobia delle popolazioni della regione. Costretti ad acquisire gas liquefatto dagli USA in cambio di (presunta) protezione, e trattati dalla UE alla stregua di membri di serie B, questi Paesi hanno trovato nella Cina un socio commerciale che offre concrete possibilità di sviluppo.

Un altro esempio evidente è rappresentato dal caso greco. La Cina è perfettamente a conoscenza del rilievo geopolitico di una Nazione che, per quanto martoriata dalla crisi economica e dall’imposizione delle politiche di austerità, gode di una posizione strategica fondamentale nel contesto mediterraneo e possiede una delle più importanti flotte mercantili a livello globale. Qui, nonostante il nuovo governo di Kyrakos Mitsotakis abbia già garantito l’apertura di tre basi militari statunitensi, il lavoro di penetrazione cinese si sta facendo sempre più intenso. La Grecia, di fatto, ha un ruolo di primo piano nel progetto cinese della Nuova Via della Seta. Ed è per questo motivo che Pechino, oltre all’acquisizione della maggioranza del porto ateniese del Pireo (che ha consentito la creazione di oltre 10.000 posti di lavoro), sta investendo nel Paese mediterraneo nel campo delle energie rinnovabili e delle infrastrutture.

Ora, è bene sottolineare che dalla fine della Guerra Fredda in poi e con l’apertura al mondo esterno sancita dal denghismo, l’approccio cinese alle relazioni internazionali ha smesso di concentrarsi quasi esclusivamente sugli aspetti ideologici sebbene l’obiettivo di fondo rimanga quello stabilito nella Conferenza di Bandung del 1955: ovvero, “promuovere lo sviluppo comune di Europa, Asia e Africa proponendosi come alternativa credibile al mercato occidentale”.

In una situazione di contesa globale in cui gli aspetti di predominio economico-egemonico si sovrappongono e oltrepassano quelli prettamente ideologici, non sorprende il fatto che la Cina non abbia alcuna intenzione di rinunciare al rapporto privilegiato costruito con il Brasile negli anni passati. E lo stesso governo Bolsonaro, in questo senso, si è trovato costretto ad affrontare la cruda realtà. Per questo motivo, riguardo al caso brasiliano, sarebbe più corretto parlare di una scelta imposta dalla necessità più che di una “svolta geopolitica”.

La Cina è il primo partner commerciale del Brasile e, nonostante le promesse fatte in campagna elettorale, Bolsonaro non può di certo cambiare in un anno la decennale politica economica del Paese sudamericano o la sua interconnesione con i cosidetti BRICS. Parlare di “svolta geopolitica”, dunque, è piuttosto fuorviante. Anzi, il nuovo governo brasiliano, sotto molti aspetti, non ha disatteso le aspettative di coloro i quali hanno sostenuto la sua ascesa. Esso, infatti, oltre al suo rilevante ruolo nella diffusione ideologica del messianismo giudaico-evangelico, ha avanzato la proposta di realizzare un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti; ha dato il via libera all’acquisto di 150 milioni di litri di etanolo nordamericano non sottoposto a dazi doganali; ha garantito l’esenzione del visto per i cittadini statunitensi che vogliono visitare il Brasile; ed ha concesso agli USA l’utilizzo del cosmodromo di Alcantara (importante base aerospaziale per il lancio di satelliti).

Tuttavia, i piani economici del governo (impostati principalmente sulle privatizzazioni anche di importanti settori strategici per l’economia brasiliana) non hanno sortito gli effetti sperati. Se il FMI aveva previsto per il Brasile un tasso di crescita del 2,5% nel 2019 e del 2,2% nel 2020, a distanza di pochi mesi, quelle stesse stime sono state ampiamente ridotte. Così, il tasso di crescita del Paese nel 2019 si è ridotto all’1,5% e l’economia brasiliana, già provata da anni di recessione, è rimasta in stato comatoso. Inoltre, il processo di privatizzazione dell’industria petrolifera non ha garantito gli introiti desiderati. All’asta di inizio novembre su quattro blocchi petroliferi situati sulla costa brasiliana, che avrebbe dovuto garantire allo Stato un introito di 106 miliardi di Real, nonostante l’interesse iniziale delle più importanti compagnie mondiali (e delle nordamericane Chevron ed Exxon in primo luogo), ha finito per presentarsi solo la compagnia statale Petrobras in consorzio con due società cinesi.

Questo esito disastroso sarebbe dovuto al fatto che in pochi sembrano credere alla tenuta del governo brasiliano nel momento in cui colui che avrebbe dovuto rappresentare il principale oppositore politico di Bolsonaro alle passate elezioni è stato scarcerato; e nel momento in cui la “guerra alla criminalità”, promessa in campagna elettorale, si sta risolvendo in una mera “guerra ai poveri”, sancendo una frattura di classe sempre più ampia all’interno della società brasiliana.

Dunque, oltre al dato economico che fa della Cina una sorta di garante della stabilità brasiliana (non è da sottovalutare il fatto che il principio di non ingerenza nelle politiche ambientali dei propri partner commerciali sia un altro aspetto che attragga l’attuale governo brasiliano verso la Cina), non è da tralasciare il dato politico. Ovvero, il timore che Russia e Cina possano, in qualche modo, favorire una nuova ascesa di Luiz Inácio Lula da Silva con il quale hanno costruito la struttura stessa dei BRICS: uno dei pilastri dell’evoluzione dell’ordine globale verso il multipolarismo.

È soprattutto in questo senso che bisogna interpretare quella che è stata definita “l’improvvisa devozione” di Bolsonaro per la Cina, tanto da definirla come “parte integrante del futuro del Brasile”; e, allo stesso tempo, la volontà cinese di non lasciare che il gigante sudamericano (quasi incapace per l’inettitudine dei propri governanti di sfruttare le proprie stesse risorse) finisca totalmente sotto tutela nordamericana.

Foto: Palácio do Planalto/Flickr

 



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