venerdì 11 novembre 2011 - Sergio Giacalone

Berlusconi, il cavaliere buttato giù dal suo cavallo

Come volevasi dimostrare: il Cavaliere è caduto da cavallo.

Erano mesi ormai che tutti, tranne rare e direi temerarie eccezioni, sembravamo non aspettare altro; ne sono testimoni la stampa e i social network. Generalmente la conseguenza minima e più logica della caduta sono le manifestazioni di giubilo.

Da sempre, senza andare troppo indietro, ci tornano alla mente le folle festanti alla notizia del crollo muro di Berlino e di quelli consequenziali dei vari regimi comunisti nell’est europeo; ma anche l’entusiasmo, a tratti eccessivo, seguito alla cattura di vari tiranni in Medio Oriente o in Nord Africa.

Non dico che ora noi dovremmo ricalcare quelle scene. Sarebbe sinceramente esagerato. Ma in quegli stessi “luoghi” mediatici che sono stati culla delle più agguerrite cyber-battaglie contro il Berlusca, dove tutti abbiamo sfogato i nostri malumori, mi aspettavo che squillassero le trombe e rullassero i tamburi.

Invece nulla. Silenzio, al massimo qualche sussurro. E allora ti rendi conto di come siamo cambiati noi italiani in questi ultimi 65 anni. Ti accorgi di quanto scientificamente la politica risorta con la Prima Repubblica e che ora regna incontrastata nei palazzi del potere ci ha disabituati alla partecipazione, per impedire che capissimo gli inganni e le mistificazioni, per evitare che ci ribellassimo alle ingiustizie, quelle storiche e sociali, che sono state il pane quotidiano per la classe politica impostasi alle nostre vite nel delicatissimo passaggio fra il Fascismo e la libertà.

Ti rendi drammaticamente conto che l’ultima volta che noi italiani, dal nord al sud, siamo scesi in piazza festosi a testimoniare il nostro orgoglio unitario e a gioire per la risorta partecipazione politica è stato il 25 luglio 1943, la fine del fascismo. Troppo lontano. Le volte successive si trattava dei Mondiali di Calcio, ma quella è un’altra gioia.

Per motivi politici o per orgoglio nazionale in Italia non esultiamo più. Ci è stata lasciata la critica, quella sì, quanto basta per mantenerci nell’illusione di vivere il sogno democratico. La satira politica sembra uno dei pochi diritti realmente garantiti dalla Costituzione e noi l’abbiamo affinata fino a diventarne maestri.

Attraverso la satira siamo diventati abili a svelare i misfatti e a denunciarne la gravità più che attraverso i mezzi canonici di inchiesta, al punto che la satira è il momento pregnante di molte trasmissioni di approfondimento politico. Ma ci fermiamo lì.

Quando poi la storia ci dà l’occasione del protagonismo, quando la meta “satiricamente” agognata è raggiunta, allora rimaniamo smarriti, non sappiamo più esattamente cosa fare, come e quando muoverci, cosa e quanto pretendere. In una parola (orribile) indifferenti.

E lasciamo le piazze ai black bloc e altri simili esaltati senza uno scopo che non sia la devastazione. E questo cos’è se non il prezzo (altissimo) che stiamo pagando per l’abdicazione al protagonismo che ci spettava di diritto dopo la caduta del fascismo? Abbiamo permesso che i partiti si insinuassero nel nostro tessuto politico divenendone detentori assoluti.

Che si sostituissero a noi in ogni aspetto, che ci illudessero di lottare per i nostri diritti, senza deliberatamente spiegarci che il rispetto dei doveri è importante al pari dei primi per salvaguardare le libertà che sottendono alla vera Democrazia. Noi abbiamo perso l’abitudine ai doveri così come non riusciamo più a dare valore all’Orgoglio Nazionale. E questo è un problema serissimo.

Spiace dirlo, ma davanti a questo scempio inutile arrovellarsi su quale sia la soluzione migliore, se il substrato rimane fango; inutile che le varie "Cassandre della politica" snocciolino soluzioni che nessuno in Europa giudica credibili; è inutile: abbiamo perso la faccia. Ci vorrebbe il coraggio di tornare indietro, riprendere il filo dove è stato interrotto e riannodarne i lembi per recuperare i valori di un passato volutamente dimenticato, ma dove risiedono le nostre autentiche radici di Stato Nazionale Unitario. Altrimenti sarà tutto inutile.

E allora interpretiamo il nostro silenzio come l’omaggio reso ad un defunto. Così almeno ha un senso.




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