mercoledì 8 settembre 2021 - Enrico Campofreda

Bandiere, intrecci, intrighi nell’Afghanistan in arrivo

Nonostante le bandiere talebane che pavesano, quasi fosse una nave, la valle arida, stretta, infida del Panshir – coi cinquemila e oltre del Kuk-e Kolzaro Zaghicha a ovest e i quasi seimila di Mir Samir a Levante – il problema dei turbanti restano le turbe interne. 

Scardinare l’ex rifugio del leone Shah s’è dimostrato cosa semplice. Imprendibile ai taliban del primo Emirato, e a inizi anni Ottanta agli assalti dell’Armata Rossa: il primo con mezzi corazzati di terra ed elicotteri Gunship, il secondo con tanti militari in più, e un altro ancora con uomini e mezzi, millesettecentocinquanta carri e blindati. Tutto inutile. Ma erano altri tempi, c’era un comandante vero e soprattutto altre motivazioni. La presunta resistenza di Massud junior è servita poco alla sua stessa propaganda, unirsi a elementi come il torturatore di prigionieri Saleh, vicepresidente di Ghani, significava sommare corruzione e terrore da contrapporre al terrorismo talebano. Poteva trovar credito solo in bastian contrari alla Henry Lévy, neppure in combattenti tajiki che si prospettano un fronte resistenziale migliore che per ora non esiste. Simbolicamente appaiono più efficaci azioni di resistenza passiva – ma potrà durare? – dei gruppetti di donne che in varie città, capitale compresa, scendono per via in quindici-venti, come hanno mostrato finora telecamere ufficiali di Tolo tv o i video di free lance locali. I taliban preposti all’ordine pubblico con kalashnikov in bella vista, lacrimogeni e spry urticanti le hanno minacciate e disperse. Le coraggiose insistono. Qualcuna è finita male, e c’è stato di peggio: la poliziotta Banu Negar è stata assassinata in casa, davanti ai familiari. Non l’ha salvata neppure la gravidanza all’ottavo mese.

Se si tratta di reazioni sconsiderate di ‘teste calde’ che perdono il controllo, oppure di direttive durissime che partono da comandanti ispirati dal vertice, si capirà al momento dello scioglimento d’un nodo che sta diventando scorsoio: chi deve guidare il secondo Emirato. I due gruppi in contesa per il dominio, sebbene tutto fosse stato approntato già dalla scorsa settimana col binomio Akhundzada leader spirituale, Baradar primo ministro più l’appoggio, oltreché militare, politico di Yacoob, utile agli equilibri nella Shura di Quetta – è messo in discussione da Sirajuddin Haqqani. Il liberatore di Kabul, l’acceleratore dell’uscita statunitense dal Paese e della fuga per la salvezza di chi non vuol restare sotto quel cielo. Se sarà solo una minoranza di qualche decina di migliaia di filo-occidentali o una crescente massa di milioni di profughi si vedrà nelle prossime settimane, diventate strategiche e critiche. A tal punto che fra i partecipanti al rinnovato “Grande gioco” sono già in prima fila il Pakistan, con l’attuale signore dei Servizi, il generale Hameed, nella veste di mediatore fra i taliban afghani per la formazione del governo. E l’emiro qatariota Al-Thani, che sopravanza i presuntuosi vicini: il saudita bin Salman e il principe di Abu Dhabi bin Zayad. Al-Thani acquirente di tivù, squadre di calcio, campionati Fifa, promette petrodollari a un affamato Afghanistan, fornisce aiuto tecnico per la riapertura dell’aeroporto della capitale, ammicca buoni uffici tramite la Turchia (e probabilmente la Russia) per una stabilizzazione interna. Ma vicini gelosi già dissentono – Teheran per bocca del neopresidente Raisi – e nel governo che può accontentare anche gli Haqqani non ci sarà la variabile poco governabile dell’Isis-Khorasan e dei manipoli della ‘strage perenne’ acquattati nelle Fata, Nord-Warizistan, Beluchistan. Altro che Panshir…

Enrico Campofreda 




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