lunedì 29 agosto 2011 - Maurizio Mottola

Banche private e debito pubblico: come uscirne?

Secondo Gian Battista Vico la storia è “scienza” appunto nella misura in cui essa aiuta l’uomo a rendersi conto dei propri limiti, della propria dipendenza, ciò che la natura -a suo giudizio- non è in grado di fare con altrettanta incisività.

Inoltre la storia è caratterizzata da “corsi” e “ricorsi”, al punto che la barbarie può sempre tornare in auge. La crescita della spesa pubblica cominciò ad accentuarsi in maniera significativa già dalla metà dell’Ottocento, ma più consistentemente dagli inizi del XX secolo in poi; e ciò per differenti ragioni, tra cui cause belliche o di riorganizzazione politico-amministrativa, ma soprattutto perché segno della trasformazione dei compiti e delle funzioni dello Stato, sotto la spinta del crescente sviluppo economico-sociale, che richiese interventi diretti nell’economia.

Le spese a Parma, dal 1817 al 1858, passarono da poco più di 5 milioni a quasi 10, il Regno delle Due Sicilie nel 1827 registrò spese per 29 milioni di ducati e per 38 nel 1858, ed ancora per i diversi Stati italiani, nel 1861, cioè al momento della unificazione sotto i Savoia, il debito pubblico complessivamente ammontava a 3 miliardi di lire, di cui uno del solo Regno di Sardegna; e durante il primo anno il deficit complessivo fu di 446 milioni, gran parte a carico del Regno di Sardegna, a causa dello sforzo compiuto per promuovere, anche sul terreno militare, l’opera di unificazione nazionale.

L’impostazione di politica unitaria, che venne seguita successivamente al 1861 da parte del nuovo Regno d’Italia, permise un certo risanamento, ma non potè evitare, comunque a fronte dell’aumento della spesa pubblica, il ricorso all’indebitamento: esso, dunque, dai 3.131 milioni registrati nel 1861 passò ai 5.593 nel 1865, agli 8.815 nel 1870, ai 12.094 nel 1885 e senza apprezzabili mutamenti tale restò fine alla fine del secolo.

Le consistenti e crescenti emissioni di debiti ebbero come effetto quello di sottrarre denaro agli investimenti e richiamarono cospicui capitali stranieri. Infatti, dei 5 miliardi di debito del 1865, due erano in mano a stranieri, senza poi contare la quota indirettamente detenuta dalle banche estere con sedi in Italia e ciò può essere spiegato considerando i rendimenti che potevano ottenersi, dato che, già partendo da un buon 5% di nominale, si passava poi ad un 7% effettivo, a causa del continuo calo dei corsi. Risultato fu che le consistenze del debito e degli interessi pagati all’estero furono tali che la subordinazione delle finanze italiane alle censure ed al controllo dell’estero era abbastanza accentuata; inoltre, la valutazione dei titoli era in balia delle oscillazioni dei grandi mercati finanziari internazionali, con grave minaccia per il credito dello Stato.

Nel 1862, 32 milioni di interessi furono pagati all’estero per lo scadere di cedole semestrali, salendo a 66 nel 1863, a 84 nel 1864, a 85 nel 1865 ed a 98 nel 1866; durante il bienno 1865-1866 nelle Borse di Londra e Parigi il corso dei titoli pubblici italiani, con valore nominale di 100 lire, scese da 60 a 36 con ritorno in Italia di gran parte di essi; il che provocò un salasso di moneta per 452 milioni nel quinquennio 1866-1870.

Questo è il retroterra storico dell’attuale vicenda del debito pubblico, che adesso è di 1.900 miliardi di euro, con interessi che incidono per circa 85 miliardi l’anno (circa il doppio della manovra economica in discussione al Parlamento).

Va ricordato che il 7 febbraio 1992, Giulio Andreotti come Presidente del Consiglio, insieme con il Ministro degli Esteri, Gianni De Michelis e con il Ministro del Tesoro, Guido Carli (già governatore della Banca d’Italia) firmarono il Trattato di Maastricht, che tra l’altro istituiva il Sistema Europeo di Banche Centrali (SEBC) e la Banca Centrale Europea (BCE), con il compito di emettere la moneta unica (euro) e di gestire la politica monetaria comune per l’obiettivo fondamentale di mantenere la stabilità dei prezzi.

La Banca Centrale Europea, proprietà delle banche centrali nazionali le quali ne sono azioniste, è un soggetto privato con sede a Francoforte ed è costituita dai seguenti soci: Banca Nazionale del Belgio (2,83%); Banca Nazionale della Danimarca (1,72%); Banca Nazionale della Germania (23,40%); Banca della Grecia (2,16%); Banca della Spagna (8,78%); Banca della Francia (16,52%); Banca Centrale d’Irlanda (1,03%); Banca d’Italia (14,57%); Banca Centrale del Lussemburgo (0,18); Banca d’Olanda (4,43%); Banca Nazionale d’Austria (2,30%); Banca del Portogallo (2,01%); Banca di Finlandia (1,43%); Banca Centrale di Svezia (2,66%); Banca d’Inghilterra (15,98%). Inoltre, secondo l’articolo 107 del Trattato di Mastricht, la Banca Centrale Europea è esplicitamente sottratta ad ogni controllo e governo democratico da parte degli organi dell’Unione Europea (UE), per cui ciò fa sì che sia una sorta di soggetto sovranazionale ed extraterritoriale.                           

Inoltre, tra i soci azionisti della Banca Centrale Europea ci sono tre Stati (Danimarca, Inghilterra e Svezia), che non hanno adottato l’euro, ma che - in virtù delle loro quote (complessivamente del 20,36%) - possono influire sulla politica monetaria dei paesi dell’euro.

Dunque, l’Italia ha ceduto la sua sovranità monetaria ad un soggetto (la Banca Centrale Europea) sovranazionale ed extraterritoriale, sottratto ad ogni controllo, in contrasto con l’articolo 1 della Costituzione, che dice “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. E la sovranità monetaria che fine ha fatto, se un gruppo di banche private decide per lo Stato italiano il costo del denaro?

Del resto la stessa Banca d’Italia è per il 95% in mano a privati, che sono: Gruppo Intesa (27,2%); Gruppo San Paolo (17,23%); Gruppo Capitalia (11,15%); Gruppo Unicredito (10,97%); Assicurazioni Generali (6,33%); INPS (5%); Banca Carige (3,96%); BNL (2,83%); Monte dei Paschi di Siena (2,50%); Gruppo La Fondiaria (2%); Gruppo Premafin (2%); Cassa di Risparmio di Firenze (1,85%); RAS (1,33%); privati (5,65%). Solo il 5% del capitale della Banca d’Italia è dell’INPS, ovvero di un ente pubblico, per cui la Banca d’Italia è per il 95% in mano a banche private, che (secondo la legge bancaria del 1936) dovrebbero essere controllate dalla Banca d’Italia, a cui per l’appunto è stato demandato il compito di vigilanza sulle altre banche. Ma se le banche sono proprietarie (al 95%) della Banca d’Italia, che dovrebbe su di loro vigilare e - attraverso i consigli di amministrazione - nominare governatori e direttori, ciò vuol dire che i controllati controllano i controllori e non viceversa!

Insomma, lo Stato, invece di crearsi il suo denaro a costo zero e senza interessi (come farebbe uno Stato Sovrano), lo acquista con titoli di Stato (indebitandosi) da banche private con cospicui interessi, per cui l’attuale debito pubblico è matematicamente impagabile. Infatti, per azzerare tale debito pubblico italiano bisognerebbe creare altri 1.900 miliardi di euro, che nella situazione attuale di assenza di sovranità monetaria, con la cessione della potestà di emissione delle banconote ad un sistema bancario privato, vorrebe dire creare ulteriori titoli di Stato (di indebitamento) per 1.900 miliardi, portando così il debito pubblico a 3.800 miliardi. Ed è per questo che il debito pubblico prima o poi non può che essere ricusato, ovvero annullato: è impagabile (nella situazione di mancanza di sovranità monetaria).

Allora che aspetta Giulio Tremonti a dare seguito a quanto disse il 6 marzo 2009, intervistato al TG1: “(…) la causa principale della formazione del debito pubblico è che gli Stati hanno ceduto la sovranità monetaria (…)”? Attivi la sovranità monetaria e passerebbe alla storia, in compagnia di Abraham Lincoln, John F. Kennedy, Robert Kennedy, che firmarono (in periodi diversi) provvedimenti affinchè fosse lo Stato americano ad emettere il dollaro in proprio, ritirando la delega al sistema bancario privato relativamente alla sua emissione. Forse teme di venire assassinato come loro tre e per questo sono definiti “caduti per la moneta”.

Però Giulio Tremonti ha anche a disposizione altre decisioni: per esempio, attraverso una semplice modificazione delle regole contabili bancarie ed applicando una tassazione intorno al 7% del “signoraggio” (un profitto enorme concesso e corrisposto dallo Stato al sistema bancario in nome della delega ad emettere banconote), si consentirebbe alla società civile di raggiungere un equilibrio economico, che conferirebbe a sua volta a tutti i cittadini un certo grado di tranquillità e di benessere, in quanto porterebbe sufficienti risorse alla finanza pubblica ed il rilancio dell’economia e degli investimenti (a discapito dei perversi giochi finanziari), evitando i tagli delle spese sociali ed i prelievi (diretti ed indiretti) ai contribuenti.

Oppure, siccome lo Stato italiano può coniare monete metalliche (per esempio da 2 euro) in una certa percentuale sulla valuta totale, senza per questo emettere e corrispondere al sistema bancario titoli di Stato (di indebitamento), e siccome la Banca Centrale Europea non rende noto quante banconote ha emesso negli anni, allora - mancando un valore a cui attenersi per parametrare la quantità di monete metalliche da 2 euro da coniare - lo Stato italiano potrebbe coniarne quante ne vuole: 666 metri cubi di monete metalliche da 2 euro corrisponderebbero a 1 miliardo di euro.

Per attenuare il carico della manovra economica sui cittadini, Giulio Tremonti e la maggioranza potrebbero in varia misura ricorrere a questo stratagemma, del tutto lecito. Sarebbe anzi un minimale esercizio di sovranità monetaria, ma meglio di niente e per giunta potrebbe essere l’inizio di un percorso verso la completa sovranità monetaria. Inoltre, si può decidere di seguire l’esempio dei cittadini islandesi (circa 320.000 sparsi su un territorio vasto e ricco di risorse), che hanno deciso di dichiarare l’insolvenza del debito (di circa 4 miliardi), che le banche avevano sottoscritto con la Gran Bretagna e con l’Olanda, seguendo un principio sancito da molte costituzioni, ma la cui applicazione appare quasi un atto rivoluzionario: che la volontà del popolo sovrano è superiore a qualsiasi tipo di accordo internazionale. Infatti, nel marzo 2011 le votazioni al referendum consultivo popolare hanno espresso il 93% dei voti per il no alla legge che prevedeva il risarcimento del debito di 4 miliardi nei confronti di Gran Bretagna ed Olanda, mentre nel frattempo venivano emessi i primi mandati di arresto per diversi banchieri e membri dell’esecutivo, ritenuti responsabili della crisi finanziaria.

I cittadini islandesi (della più antica democrazia del mondo, risalente al 930) sono riusciti a dare una lezione di sovranità popolare e monetaria a tutta l’Europa, opponendosi pacificamente al soffocamento della loro economia reale (e quindi della qualità della loro esistenza) e mettendo in primo piano il potere della cittadinanza nei confronti della gestione della crisi finanziaria.

Noi italiani (forse meno coraggiosi degli islandesi) potremmo comunque richiedere la ricusazione (annullamento) dei circa 85 miliardi di interessi annuali sul debito pubblico di 1.900 miliardi, non togliendo al sistema bancario privato qualcosa che ha dato, bensì togliendogli unicamente un utile, a parziale risarcimento del suo cospicuo lucrare tramite il “signoraggio” (un profitto enorme concesso e corrisposto dallo Stato al sistema bancario in nome della delega ad emettere banconote).

Infine, c’è anche la possibilità che l’Italia attui l’iniziativa della Gran Bretagna, che ha raggiunto con la Svizzera un accordo-quadro per tassare conti svizzeri (non dichiarati) di cittadini britannici. L’intesa (sulla falsariga dell’accordo già stipulato di recente tra Germania e Svizzera) dovrebbe fruttare alla Gran Bretagna circa 5 miliardi di sterline entro il 2013. Secondo l’accordo viene preservato l’anonimato dei depositanti britannici in cambio di una marcata tassazione del reddito prodotto dai loro investimenti in Svizzera. A fronte della garanzia di anonimato, il reddito prodotto dai depositi svizzeri di residenti britannici subirà dal 2013 una ritenuta d’imposta tra il 27 ed il 48 per cento, più l’una tantum compresa tra il 19 ed il 34 per cento (a seconda della dimensione del deposito) in regime transitorio fino al 2013. L’aliquota dell’imposta sui depositanti britannici in Svizzera è quasi doppia di quella che verrà dai depositanti tedeschi in Svizzera. Ciò dovrebbe fornire un potente incentivo al rimpatrio di capitali nella Gran Bretagna, prima che l’accordo divenga effettivo ad inizio 2013. Il tornaconto della Svizzera è l’esigenza di frenare l’apprezzamento del cambio del franco e però nello stesso tempo di non perdere depositi a vantaggio di altre piazze.

Il fatto è che, piuttosto che “parlare sulle cose” (chiacchierare a vanvera) e “parlare delle cose” (arzigogolare astrattamente), maggioranza ed opposizione dovrebbero “parlare nelle cose” (operare fattivamente per possibili soluzioni della crisi, che non siano vessatorie nei confronti dei cittadini).



1 réactions


  • (---.---.---.25) 30 agosto 2011 08:16

    "La volontà del popolo sovrano è superiore a qualsiasi tipo di accordo internazionale."

    Ecco appunto, riprendiamoci la nostra legittima "Sovranità Popolare" e attraverso l’istituzione dei referendum legislativi e senza quorum aboliamo subito il trattato di Maastricht esercitando finalmente la nostra sacrosanta "Sovranità monetaria Popolare".

    Insomma; trasformiamo la democrazia rappresentativa in democrazia diretta e, con l’istituto della "revoca del mandato" introduciamo una forma di "controllo democratico" sui nostri rappresentanti politici e così sarà il Popolo Sovrano a tenere " a guinzaglio" i politici e non il contrario.

    http://sovranidade.org/

    Lucio Sanna


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