lunedì 11 ottobre 2021 - Enrico Campofreda

Afghanistan, moschee nel sangue

L’arena del sangue è ancora una volta una moschea. Sciita. A Kunduz. I brandelli di ottanta corpi, il manto rosso che tutto avvolge come un’Āshūrā che onora il martirio di al-Husain, non stanno mimando una commemorazione.

 E’ tutto tragicamente vero. Per l’ennesima volta, sotto la regìa dell’Isis Khorasan che solo una settimana fa aveva colpito nella capitale un’altra moschea (Eid Gah). Carneficine che si susseguono, come nel 2018 quando sul sangue degli afghani jihadisti dell’Isil e taliban si disputavano l’egemonia del territorio. Ora che da due mesi i turbanti di Akhundzada, Baradar, Yaqoob, Haqqani hanno formato il governo provvisorio del secondo Emirato, i fanatici del Califfato continuano a martellare con kamikaze e autobombe la quotidianità afghana, per ammonire tutti che non saranno i nuovi padroni a garantire ordine ed esistenza sicure. Per nessuno. Chi è giunto dopo la terrificante esplosione nel luogo di culto ha avuto lo sguardo scioccato dal carnaio. Giovani e vecchi allungati in un lago di sangue, corpi frantumati che urlavano dal dolore domandando aiuto. E cadaveri sfranti, più o meno riconoscibili.

Nonostante il prodigarsi dei soccorritori per sostenere i feriti, questi sembravano non finire mai “era difficile trasportare tutti nelle strutture sanitarie” dichiaravano alcuni testimoni. E chi ha monitorato negli anni il panorama di quella città, ricorda l’ospedale di Medici senza Frontiere bersagliato dai bombardieri americani durante il loro conflitto coi taliban. Sa che le uniche eccellenti strutture, create dalle Ong, sono state ridimensionate. Nella rilanciata corsa della morte è sempre la gente comune a essere sacrificata o rinnovare lutti fra i familiari sopravvissuti. Ma la triennale battaglia fra i talebani dell’odierno Emirato e i miliziani d’un Califfato spettralmente sognato, mostra anche assalti rivolti a figure di rango. L’attentato della moschea di Kabul puntava al ministro dell’Informazione e Cultura Zabihullah Mujahid, lì riunito insieme a parenti e amici in memoria di sua madre. Se questo scontro, anche simbolico, è tenuto in vita da strutture militari organizzate dall’Isis-K oppure, come talune voci sostengono da “cellule dormienti” del jihadismo locale, non cambia molto la sostanza. Certo i turbanti, turbati nell’impossibilità di prevenire strazianti incursioni esplosive, cercano di minimizzare; però cinque, ottanta o centosettanta morti, non mutano la sostanza del lugubre cimitero afghano che viene riproposto.

Enrico Campofreda




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