mercoledì 28 giugno 2023 - Enrico Campofreda

Afghanistan, la piaga della tossicodipendenza

Un terzo della popolazione afghana (12 milioni di persone, ndr) si droga. Questo sostiene uno dei tossicodipendenti raggiunto dai microfoni di Al Jazeera e spiega chi sono costoro.

 Molti li conosce, sono disperati come lui che vivono ai margini d’una società sempre più povera, afflitta, disperata. La povertà innanzitutto, la mancanza di occupazione, qualcosa da fare, coltivare, costruire, vendere. Questa massa informe si riunisce sempre più numerosa in luoghi sempre più diffusi. Quindici anni addietro era Pul-e Shukta e il suo ponte, in un’area della Kabul occidentale, ora i punti di ritrovo sono tanti, frequentatissimi, nel loro oblìo e dolore. Di frequente si raccolgono i cadaveri di coloro che crepano fumando oppio e derivati, corpi resi inerti e fragili da astinenza da cibo, ma non da droghe. Anche corpi di trentenni che mostrano il doppio degli anni. Raccolti in un panno sollevato da braccia pietose o semplicemente solidali, e ancora in grado di connettere, verso compagni di inalazioni che un giorno via l’altro producono confusione, alterazione, delirio, decessi a catena. I volti, emaciati, sudati, luridi, feriti da chissà quanti colpi dati e presi in risse attorno a una dose che circola accanto ai ‘cacciatori di drogati’. Che picchiano anch’essi e catturano gente in una sorta di pattugliamento itinerante. Eppure risulta a fin di bene. Li conducono in una specie di prigione-ospedale, a prima vista sembra più la prima che il secondo. Dichiara mille posti-letto e non è una creazione recente, risale al 2015. Sorge in un’ex base militare statunitense ed è intitolata nientemeno che a Ibn Sina (Avicenna) il filosofo, matematico e medico vissuto, fra il 980 e il 1037, in quello che è oggi l’Uzbekistan. La denominazione illustre non solleva il sito dal suo stato di dolore. La differenza è che il controllo dell’ingresso, fino a due anni or sono gestito dalle divise dell’esercito di Ghani, è in mano ai kalashnikov dei taliban. In difficoltà nello smaltire un crescente via-vai di arrivi.

Perché se i numeri citati all’inizio potrebbero essere esagerati, l’ultima statistica diffusa nel 2015 da Unodc, l’Agenzia Onu che s’occupa di sostanze stupefacenti, parlava di un quasi raddoppio delle cifre di tossici nell’Afghanistan esaminato, Kabul e poco più, da 1,9 milioni a 3,7 milioni abbondanti. Gli otto anni trascorsi senza più rilevazioni, il cambio di regime, il baratro economico di uno Stato inesistente, la sospensione di una buona fetta di aiuti umanitari, l’anno e mezzo di emergenza alimentare, l’isolamento internazionale fanno uscire di senno non solo i disperati, ma tanti afghani che non sognano più nulla e se sognano vedono un orizzonte nerissimo. Se parla il responsabile del centro, un comandante talebano di nome Mawlavi, dice che le droghe sono vietate nella cultura islamica. La nenia è nota: divieto assoluto in tutte le province dell’Emirato. Di certo non solo il consumo, che nonostante la desolazione di cui parliamo, è limitato, perché l’oppio e l’eroina prodotte viaggiano per il mondo, rifornito all’80% da queste terre. Sono vietate coltivazione, lavorazione e commercio. Tutto in teoria. I fatti dicono altro. Ci fu un tempo, col primo Emirato del mullah Omar, che la produzione cui attingevano i mujaheddin, i Signori della guerra e quelli degli affari, si bloccò. Ma dall’epoca dell’Enduring Freedom, dell’occupazione Nato e dei governi imposti da Washington tutto è ripreso. E continua così, nonostante le versioni di comodo talebane. L’Islam vieta l’oppio, ma i turbanti chiudono gli occhi e aprono le tasche, perché non è un segreto che essi stessi lucrino sui traffici. Ovviamente non solo loro. Anzi, il business delle mafie della droga, internazionali e trasversali, unisce Oriente e Occidente, iraniani, russi, turchi, greci, italiani, albanesi (la lista è lunga e può proseguire) e tanti clan solidali. Dalle mafie alle curve degli stadi, come certificano gli ammazzamenti delle cronache. Il tossico disperato rastrellato da ronde della sicurezza di Kabul, viene perquisito, privato di pipette e siringhe, e pure di qualche moneta e telefono. In fila, spesso scalzo, non perché sia privato di calzature, semplicemente non ne ha, procede nella struttura dove gli si offrono sandali, vestiti puliti da indossare dopo una doccia.

L’acqua, il sapone scivolano su corpi sempre scheletrici, li assistono volontari del cui servizio la gestione talebana fa vanto. Si può pensare a soggetti, quasi tutti di sesso maschile, derelitti, senza famiglia e senza Dio. Non è così. Molti di loro sono padri, in tanti pregano, se non sono in preda a deliri. Ma c’è anche chi impreca Allah. Sono finiti risucchiati nel circolo della dannazione per una crescente sfiducia nella vita che avevano davanti agli occhi. Sniffano abbarbicati ai pali anche ex ufficiali dell’Afghan Securities Forces che fu di Karzai, conoscendo o forse no, dipende dall’età, quel che faceva Wali, il fratello narcotrafficante del presidente. Lavàti, rasati, vestiti i ricoverati passano alle attenzioni del personale sanitario, certo le crisi d’astinenza risultano difficili da gestire. Chi ce la fa tenta un recupero della vita, intesa come stato minimo di salute, altri restano in un limbo, fra i tentativi medici e le maniere forti delle guardie talebane. C’è chi tenta il suicidio, chi si chiede quale futuro gli riserva l’Emirato, chi sostiene di sentirsi in galera. Ma nei momenti d’incontro collettivi che la direzione propone c’è anche chi afferma di voler uscire dalla schiavitù dell’oppio e pensare alla salute. Alla salute, sì. Pur davanti a difficoltà alimentari ed esistenziali. Sembra una rinascita. Forse per alcuni lo sarà. Il momento comune semplice ed efficace, nella permanenza nello spazio di Avicenna che dura una mesata, è quello dei pasti. Il riso fumante può inebriare più di vecchi fumi, perché appare un frammento di normalità mangiare un piatto caldo a chi racconta d’aver mangiato topi. Le donne di questi uomini persi, se mogli e madri, dicono d’aver condotto avanti la prole, come potevano, ora che il lavoro s’è azzerato. Hanno smarrito i mariti, non ne hanno notizie, sebbene alcuni gettavano l’esistenza a due chilometri da casa. C’è possibilità di visitarli durante il recupero, il direttore Mawlavi ha disposto incontri nella giornata del venerdì. Sperando che, fra una preghiera e l’altra, gli ospiti si risollevino. Proprio i pazienti che reagiscono hanno chiari i motivi della caduta agli inferi: guerra, povertà, mancanza di lavoro e di prospettive. A loro la volontà di Allah non basta.

Enrico Campofreda

 

 




Lasciare un commento