venerdì 12 novembre 2021 - Enrico Campofreda

Afghanistan, la morte per bombe e quella per fame

Ventitré milioni di afghani rischiano la fame, afferma un recente rapporto del World Food Programme che ha corretto in peggio, aumentandola di tre milioni di unità, la stima offerta a inizio anno d’un pericolo a livello mondiale per quarantacinque milioni di persone. Non è un caso che la disgrazia riguardi Paesi dove problemi sociali, geopolitici, climatici rendono difficoltosi anche aiuti umanitari. 

Oltre all’Afghanistan sono coinvolte Haiti e alcune nazioni africane (Etiopia, Somalia, Angola, Kenia, Burundi). La situazione afghana è precipitata nell’ultimo anno, anche prima della caduta di Kabul in mano talebana, per cause interne: le reiterate violenze che allontanano la popolazione d’ogni sesso dalle attività lavorative, la siccità. E per intralci internazionali: la pandemia e, ultimo, il blocco voluto dagli Stati Uniti dei fondi destinati alla nazione (9.5 miliardi di dollari) tanto per opporsi alla ricomparsa dell’Emirato. Abbiamo visto come quest’evento sia stato un tutt’uno con l’implosione del regime Ghani, il liquefarsi delle locali Forze Armate, la fuga del presidente e del suo staff con denari destinati all’amministrazione pubblica. Tutto ciò era prevedibile con gli Accordi di Doha. Ma volendo evitare di riconoscere un sistema attuato dagli uomini con cui la Casa Bianca ha trattato, ora si sta punendo un intero popolo che rischia la salute e la vita stessa. A ruota degli Usa l’Unione Europea ha tagliato i fondi destinati al Paese, e l’hanno fatto il FMI e la Banca Mondiale che avevano previsto per l’anno in corso di elargire rispettivamente 400 e 800 milioni di dollari. Quel miliardo abbondante potrebbe sfamare milioni di disperati. Egualmente i nove miliardi congelati offrirebbero un sostegno non secondario. Ma si dice di non voler offrire capitali a chi, come i taliban, possono utilizzarli per piani terroristici o per proprio tornaconto. Però per due decenni le amministrazioni Karzai e Ghani hanno incamerato dollari ed euro, anche quando a gestirli, ai vertici di svariati Esecutivi c’erano terroristi riciclati in qualità di vicepresidenti: Fahim, Khalili, Dostum, mentre fondamentalisti del calibro di Hekmatyar e Khan agivano da politici di primo piano.

Uno dei motivi del blocco, che diventa di fatto una ritorsione verso la già tanto martoriata popolazione, sono le pratiche talebane: segregazione etnica per gli hazara, segregazione di genere per le donne. Accanto alla repressione delle iniziali proteste di minuti ma determinatissimi gruppi di attiviste che lamentavano l’allontanamento femminile dalla politica e dalle professioni imposto dall’Emirato, sono comparsi: un’obbligata divisione nei corsi universitari fra studenti e studentesse, il drammatico blocco dell’attività scolastica inferiore per bambine e ragazze, la dissuasione del lavoro per le donne (rimaste occupate pur senza salario solo nei ruoli sanitario e di educazione primaria). Ancor più allarmante è il rilancio di violenze e azioni criminali, giunte sino al rapimento e all’assassinio di donne che vestivano la divisa, praticavano sport, s’impegnavano sul fronte sociale e dei diritti. Per questi casi dal ministero dell’Interno assicurano indagini, ma è proprio il radicalismo di chi dirige quella struttura – il tristemente noto Sirajuddin Haqqani – a non offrire speranze di giustizia. Tutto angosciosamente reale. Come è stata reale la pluridecennale assenza di prospettive che dessero un futuro a chi, allora come oggi, è costretto a vagare dall’Hindukush ai Carpazi e alle Alpi, abusato e usato da trafficanti di speranze umane, quelli che mercanteggiano per denaro o per intenti geopolitici. Per uscire dalla spirale di veti e divieti si dovrebbero cercare soluzioni di ripiego, perché nell’incerto spazio fra Kunduz e Kandahar, nei villaggi d’insicure valli da Herat a Jalalabad passando per Kabul, tre milioni di bambini rischiano di crepare davanti all’inverno che incede. C’è stato il caso dell’Unicef, che mantiene la presenza nei campi profughi interni impegnandosi sul fronte sanitario con le vaccinazioni contro la polio e ha negoziato un accordo coi turbanti, accollandosi il pagamento dei salari di insegnanti. Così il servizio è comunque garantito senza un passaggio di denaro nelle mani del governo talebano. Potrebbe essere una strada da seguire anche per altri interventi, fuori da speculazioni politiche occidentali e dell’Emirato, attorno al disconoscimento o all’approvazione del regime.

Enrico Campofreda




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