Afghanistan, la guerra nonostante Doha
Notizie raccolte dall’Afghanistan Analists Network nei mesi primaverili ed estivi - quindi prima che s’avviassero i colloqui inter-afghani e nella fase successiva l’accordo pacificatorio vergato in Qatar fra le delegazioni statunitense e talebana - mostrano un quadro del Paese nient’affatto lontano dall’aria di morte che la popolazione respira da decenni.
Dopo la firma di Doha (29 febbraio) l’esercito afghano sembrava aver sospeso gran parte delle operazioni di terra, mentre i talebani già il 2 marzo lanciavano l’ammonimento che la loro offensiva sarebbe potuta riavviarsi in qualunque momento. A detta del ministro dell’Interno di Kabul, già nei giorni seguenti gli studenti coranici lanciavano operazioni in 17 province. Comunque, distinguendo fra i firmatari dell’accordo e i politici locali, i taliban si sono lasciati mano libera e hanno ripreso ad attaccare le forze governative, seppure vigesse un generalizzato cessate il fuoco. Ma i negoziatori dell’Emirato Islamico non estendevano questa tregua agli amministratori di Ghani e al loro apparato di sicurezza. Ai primi di aprile anche l’Afghan National Security Forces ha ripreso le operazioni belliche. E mentre la stampa ha dato risalto soprattutto a notizie eclatanti come l’assalto, senza conseguenze al vicepresidente Amrullah Saleh, decine di altre azioni si sono ripetute in varie province. Spesso s’è trattato di agguati o tentativi d’attentato tramite kamikaze, camion-bomba o i meno ingombranti, ma sempre micidiali, Ied. Le vittime erano militari, ma anche avvocati dei diritti e ovviamente sfortunati passanti. Si computano (fonte Unama) quasi 3.500 fra morti e feriti nei primi sei mesi dell’anno in corso. Sulla paternità delle azioni c’è una parziale incognita. I vertici talebani, per non essere considerati traditori dei patti, in genere rigettavano le responsabilità, seppure in alcune occasioni ne hanno assunto la paternità.
Enrico Campofreda