21 giugno-Referendum: pro e contro

Non bastasse la campagna elettorale per le prossime elezioni europee, i partiti hanno il loro bel da fare anche sulla questione del referendum, che si voterà due settimane dopo le europee, cioè il 21 giugno.
1) La legge che uscirebbe dal referendum sarebbe peggiore della legge Acerbo del ’24;
2) Consegnare la maggioranza parlamentare ed il governo ad un solo partito è antidemocratico;
3) Berlusconi ne trarrebbe vantaggio andando alle elezioni da solo, vincendole, e governando per vent’anni senza interruzione;
4) Il referendum non è lo strumento adatto per intervenire su una regola del gioco così delicata come la legge elettorale;
5) Se vincono i “sì” non sarà più possibile modificare la legge elettorale;
6) Il referendum non risolve il problema dell’eterogeneità delle maggioranze di governo.
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1) Una critica che si sente spesso, specie da parte di settori del centrosinistra, all’interno ma soprattutto all’esterno del Pd, è quella che la legge risultante dalla vittoria del referendum (che di qui in poi definiremo guzzettum) sarebbe persino peggio della storicamente vituperata legge Acerbo del 1923, applicata per la prima (ed unica) volta per le elezioni politiche del 1924. Questa legge prevedeva un premio di maggioranza (due terzi dei seggi alla Camera dei Deputati) alla lista che avesse preso più del 25% e fosse risultata la più votata.
2) Paragoni improvvidi con la Acerbo a parte, si sente spesso dire che grazie al guzzettum sarebbe un solo partito ad ottenere la maggioranza ed a governare, e questo sarebbe antidemocratico. Sicuramente sarebbe insolito, per la tradizione dell’Italia repubblicana, ma sul fatto che sia antidemocratico sorgono molti dubbi. Elenchiamo qui solo un piccolo campione dei paesi in cui un solo partito ha la maggioranza in parlamento e governa: Francia; Regno Unito; Germania (anche se più spesso qui si ha un grande partito coalizzato con uno medio-piccolo); Spagna; Stati Uniti d’America. Non sono certo esempi di dittature. La risposta appropriata a chi fa questa critica è la seguente: non è una legge elettorale a determinare se in un paese il sistema politico è democratico o meno; i parametri che definiscono una democrazia sono altri, e segnatamente i sette punti magistralmente indicati dal politologo americano Robert Dahl sono un riferimento obbligato per un’analisi degna di questo nome. Il fatto che in Italia un paio di questi punti siano messi da anni in discussione (per quanto riguarda libertà di espressione e varietà/alternatività delle fonti di informazione per i cittadini) non è affatto dovuto ad eventuali storture dei sistemi elettorali che abbiamo avuto nel corso degli anni.
3) Dal fronte del centrosinistra più di una voce si è levata infine sull’opportunità di appoggiare una modifica della legge elettorale che, allo stato dei fatti, consentirebbe a Berlusconi, in caso di elezioni anticipate, di ottenere agevolmente la maggioranza in entrambe le Camere senza avere più nemmeno bisogno dell’appoggio della Lega, e addirittura di poter cambiare la Costituzione a suo piacimento. Cominciamo da quest’ultimo punto, davvero il più ridicolo. Per cambiare la Costituzione la procedura prevede una doppia lettura ed approvazione a maggioranza assoluta da parte di Camera e Senato; ma al momento della seconda votazione sarebbe necessario approvare la modifica costituzionale con una maggioranza di almeno i due terzi, altrimenti si renderebbe necessario un referendum confermativo, come già accaduto nel 2001 e nel 2006. E come farebbe Berlusconi con il 55% dei parlamentati a cambiare la Costituzione come pare a lui se avesse bisogno dei due terzi o comunque di una conferma popolare tramite referendum? Non si sa, non c’è alcuna differenza con la situazione attuale e non si capisce il senso di questa critica, spiace anzi che sia stata fatta propria da un intellettuale colto come Francesco Pardi.
In ultimo, ma non da ultimo, occorre considerare che non ha senso considerare come “eterno ed immutabile” l’attuale consenso maggioritario di Berlusconi, e che negli scorsi anni i partiti che poi hanno formato il Partito democratico più volte hanno ottenuto più voti della somma di Forza Italia ed Alleanza Nazionale, ovvero i partiti che sarebbero confluiti nel Popolo della Libertà. Oggi Berlusconi gode di un forte consenso, ma per quanto tempo esso durerà, soprattutto considerando l’instabilità del sistema politico italiano, non è possibile dirlo; quel che si può certamente dire è che boicottare il referendum perché si è convinti di perdere le prossime elezioni non è certamente un argomento degno di questo nome.
Stupisce che queste semplici considerazioni siano sfuggite anche ad un eminente costituzionalista come Stefano Rodotà nel momento in cui esprimeva le sue critiche.
4) e 5) Quanto appena detto risponde alle osservazioni (legittime) sull’inadeguatezza dell’istituto del referendario rispetto ad una materia così delicata come la legge elettorale (per il suo essere una “regola del gioco” fondamentale) e sulla preminenza invece del Parlamento; e risponde, anche, al timore infondato, anche questo espresso dal professor Rodotà, che una vittoria del “sì” possa significare che la legge deve restare necessariamente il guzzettum.
6) Dicevamo che l’intento dei referendari era quello di ridurre la frammentazione consegnando ad una lista le “chiavi” della maggioranza parlamentare e quindi di un governo potenzialmente molto più stabile rispetto a quelli visti in passato. L’intento è nobile, ma destinato a rimanere deluso, almeno in parte. Infatti, non esiste una legge che obblighi le liste elettorali ad essere espressione di un determinato partito realmente esistente; la legge attuale infatti parla di “liste” o “coalizioni di liste”, ed il referendum può intervenire solo abrogando parti di legge; non può intervenire anche sostituendo la dicitura “liste” con la più appropriata “liste di partito”, come sarebbe opportuno. Non c’è dubbio infatti che, stanti così le cose, una vittoria del referendum spingerebbe i partiti, o almeno alcuni, a formare listoni che comprendano più partiti pronti a dividersi nuovamente una volta eletti in Parlamento; la chiave di volta sta nella disponibilità maggiore o minore dei partiti di fondersi in liste uniche, rinunciando così al loro simbolo, o comunque come minimo “inquinandolo”. Sarebbe sensato proporre un listone di centrosinistra sul modello della vecchia Unione, con dentro dai teodem ai vendoliani, con un proprio simbolo che accantonerebbe quello del Pd? Naturalmente no, anche se è possibile. Accetterebbe la sinistra radicale di far correre i suoi candidati sotto il solo simbolo del Pd? Alcuni forse sì, altri decisamente no. Lo potrebbe accettare Di Pietro? A parole fondersi nel grande soggetto di centrosinistra che dovrebbe essere il Pd è lo scopo “ultimo e definitivo” del suo partito/movimento, ma nei fatti sarebbe disposto a farlo perché “costretto” dalla legge elettorale? E per venire al campo di centrodestra, di certo non si può credere che Casini possa lasciarsi facilmente “assorbire” da Berlusconi come è successo a Fini. Né è facile credere che possa farlo la Lega, che del Cavaliere pure è fedele alleata, ma il cui senso di “identità”, così come quello dei suoi elettori, è uno dei più forti che ci siano tra i partiti italiani; senza contare che la Lega viaggia ormai su percentuali che le consentirebbero di superare qualsiasi sbarramento anche correndo da sola: se i leghisti sono contrarissimi a questo referendum non è perché temano di non riuscire a superare gli sbarramenti, ma perché Berlusconi non avrebbe più bisogno di loro per vincere le elezioni e governare, e quindi verrebbe meno il loro “potere di ricatto”. Che poi è esattamente il motivo per cui questo referendum crea tanti mal di pancia tanto nei partiti a sinistra del Pd come a pezzi importanti dell’Idv. Quest’ultima critica, quindi, si dimostrerebbe fondata se si verificasse, come è del resto plausibile, una corsa all’aggregazione forzosa in listoni “pigliatutto”.