sabato 7 giugno 2014 - SiriaLibano

Un siriano a Tunisi – seconda puntata

Tra Avenue de Paris e Avenue Bourguiba (Trombetta/2014)

Tra Avenue de Paris e Avenue Bourguiba (Trombetta/2014)

(di Lorenzo Trombetta)

Si presenta come “Fausto” ma il suo vero nome è Faysal. E’ il primo che mi chiede se sono italiano. “Si vede dalla faccia”. Qualcosa di italiano mi è rimasto. Mi racconta di suo fratello a Roma e le solite storie che “qui non c’è lavoro” mentre da noi, in Italia, il paradiso terrestre. Gli racconto che se il lavoro in Italia ci fosse, forse non sarei da dieci anni in Libano e, soprattutto, proverei a crescere i miei figli anche un po’ in Italia.

“Vai in Germania allora!”, mi dice con l’aria offesa. Gli spiego che se straniero devo sentirmi, preferisco sentirmi straniero dove mi ci sento da dieci anni e non dove devo ricominciare da zero.

Scoraggiato, Fausto mi propone uno scambio per la sua speciale collezione. “Io colleziono euro. Tu mi dai degli euro e io ti do dei dinari tunisini”. Sorrido. Nel mio portafogli non ho euro, solo dinari. “E va bene, dammi i dinari…”, mi propone. Ma non fai collezione di euro? “No, faccio collezione di tutti i soldi. Basta che sono soldi”.

Per la seconda volta in pochi mesi arrivo in una città che non conosco affatto e non ho con me nemmeno una cartina turistica. Riemergo nel viale principale e giro a destra. Mi sento un cieco, eppure vedo gli alberi in fiore – gli stessi che ora fioriscono a Beirut! – il chiosco di giornale accanto al venditore di vecchie fotografie di Tunisi di un tempo che non torna più. Mi sento meno straniero.

Proseguo e mi ritrovo sul vialone Bourguiba. E riconoscono gli alberi bassi, con la chioma squadrata. In un attimo ricollego la mia memoria televisiva alla realtà. Le proteste del 2010 e del 2011 si svolgevano anche su questo marciapiede che ora ospita i miei piedi in cerca di un posto dove sedersi.

 A sinistra una sfilza di tavolini mi invita. Ho fame e l’unica scelta veloce è una “pizzaria italiana” o un “chawarma à la libanaise”. Vada per la pizza “Vulcano” il cui unico condimento mancante è la porchetta. All’ombra di quegli alberi ripenso a quel signore che in una notte del gennaio 2011 urlava al silenzio che non ne poteva più di Ben Ali. Un’icona che le tv panarabe – all’epoca ancora non accusate di essere parte del grande complotto – hanno trasmesso all’infinito per mesi, come uno spot pro-rivoluzione.

Era l’età dell’innocenza. Quando si pensava che nessuno – a parte i diretti beneficiari di questi regimi – potessero mettere in discussione il diritto di milioni di persone di protestare contro un patto sociale consunto. Da qui la difficoltà di allora di rispondere con calma e freddezza a chi parlava di complotti stranieri. A farlo, molto spesso, sono state persone che fino al giorno prima sembravano condividere gli stessi tuoi valori.

I reazionari “di sinistra” erano e sono più numerosi di quanto pensassi. E discutere con questi sapientini è stata fatica sprecata. Così come tempo buttato è stato affrontare i “rivoluzionari” di piazza Tahrir, che nel 2013 pur di dare addosso ai Fratelli musulmanii sposavano la teoria del complotto in Siria. Anche a Tunisi, la paura della Fratellanza ha spinto molti osservatori locali a leggere il conflitto siriano con le lenti della politica interna per cui il male di ieri e di oggi è meglio di un domani inquietante e sconosciuto.

E poi quasi tutti dicono e continueranno a dire che non esistono alternative ai vari Gheddafi, Ben Ali, Mubarak, Assad, Saleh. Che le opposizioni non sono unite. Che gli oppositori, una volta al governo, non sono bravi a fare i politici. Che “ah, quando c’era Ben Ali almeno i suoi ministri sapevano amministrare… certo, rubavano ma almeno lo Stato andava avanti”.

Quelli di Ennahda a Tunisi hanno affidato lo Stato a gente incompetente. E con la crisi economica e il deterioramento delle condizioni di sicurezza… per molti un ex ministro di Ben Ali appare come l’uomo della provvidenza.

Difficile dare torto al cittadino della strada. Com’è difficile biasimare l’abitante di Raqqa, nel nord della Siria, che rimpiange i tempi di Asad rispetto alla merda cancerogena di Daesh. Mi piacerebbe intervistare un cittadino di Parigi nel 1793 e chiedergli se si stava meglio quando si stava peggio, prima del 14 luglio 1789.

 A proposito di stare male. Ho una domanda per Aldo: perché per dire “infermeria” qui a Tunisi usano tamrid, il causativo della radice di malattia? “Far ammalare” sembra proprio il contrario di “curare”. Eppure, l’insegna sopra questa “infermeria” ad Avenue de Paris recita proprio tamrid. Se si dà un’occhio al lettino per lo sventurato paziente, si capisce che la scelta del causativo forse non è proprio un errore.

Come non errata la percezione dell’uomo della strada che subisce un fenomeno di transizione epocale. E che, per sua sfortuna, si trova in mezzo al guado senza poter avvistare l’altra riva del fiume in piena che lo travolge.

Il problema è di chi, scarpe asciutte, osserva l’inondazione e continua a non voler vedere che è normale che oggi in molte realtà arabe non siano ancora emerse alternative accettabili ai regimi autoritari.

E non c’è da stupirsi che i militari trionfino al Cairo, o che gli uomini di Ben Ali tornino in auge a Tunisi, o che l’Afghanistan tanto auspicato da Asad si stia concretizzando a ridosso dei confini con l’Iraq, o che in Libia ci si scanni un giorno sì e l’altro pure.

Dopo decenni di assenza di una cultura e una pratica politica pluralista, da dove dovrebbero nascere queste alternative illuminate? Forse dovremmo abbandonare ogni tanto i panni dei cronisti, e ricordarci che siamo parte di una storia che va oltre i nostri reportage e le nostre analisi. E che forse i nostri figli potranno raccontare di realtà arabe pacificate.

Ho un appuntamento con un gigante dell’attivismo tunisino, Messaoud Rodhmani, e spero che mi illumini sulla situazione nel Paese. Attraverso il viale, raggiungo i binari del tram. Alzo gli occhi al cielo e scorgo un’insegna: "Corsi di lingua e letteratura italiana". A vostra portata per realizzare il vostro sogno di studiare in Italia”. La scritta è solo in francese, e non in arabo.

Rodhmani mi raccoglie dalla strada e mi porta nel suo ufficio. Non si direbbe che da questa stanza è partita l’idea di organizzare per ben due volte a Tunisi il World Social Forum del 2013 e del 2015. Parlare con Rodhmani è un ottimo esercizio di cambio di posizione.

Finalmente, sono io il giornalista che non sa nulla di un Paese e piomba dall’esperto di turno con domande così generiche e campate in aria da far sbuffare l’intervistato. Rodhmani è paziente.

 Ed è anche bravo a sintetizzare tre anni di lotta e resistenza in appena dieci minuti. Risponde al telefono, a un’altra intervista, e ripete convinto quel che mi ha appena detto circa il “ruolo cruciale dei social network nella rivoluzione del 2011″.

Non posso non ripensare alla Siria e al dibattito, ancora in corso, sul ruolo svolto da Facebook e dalle altre piattaforme di socializzazione nella rivolta. Rodhmani è convinto e nessuno sembra metterlo in discussione. In questi giorni ho sentito più volte affrontare questo tema come se fosse un fatto che non può esser messo in dubbio.

A Tunisi l’analisi di come sono andate le cose sembra assai più pacifica: i social network diffondevano verità, non menzogne prefabbricate. Aspetto che qualcuno si alzi in piedi e urli al complotto. O che si accusi l’oratore di turno di essere finanziato dal Qatar.

Nessuno si alza e soprattutto nessuno annuisce, semplicemente perché non c’è bisogno di approvare qualcosa che qui appare come scontato. Uff… mi posso rilassare davvero. E bere una Celtia, la birra locale che tanto ricorda la Almaza beirutina.




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