venerdì 29 gennaio 2016 - angelo umana

Il labirinto del silenzio, di Giulio Ricciarelli

Film apprezzabile per varie ragioni. La prima è che si potrebbe non aver riflettuto abbastanza su che cosa comportò in Germania fare i conti con quanto accaduto nei lager durante la seconda guerra. Ora è tutto chiarito, i lager (i tedeschi li chiamano pudicamente KL, Konzentrationslager) o luoghi della memoria sono tutti da visitare e il Paese ha ben documentato in essi quanto avvenne.

Ma ai primi anni ’60 si ebbe il processo dei figli nei confronti dei padri, che culminò nel processo di Francoforte del 1963 (Bonn pare non lo abbia voluto ospitare). I primi erano bambini ai tempi delle deportazioni. I loro padri, o la gente più anziana, sostenevano che Hitler se n’era andato, che i maggiori gerarchi nazisti erano stati giudicati a Norimberga nel ‘45 (nel film è dato sufficiente spazio alla ricerca e al processo di Eichmann a Gerusalemme, oltreché alla caccia a Mengele, morto per annegamento nel 1979 in Sudamerica …), che insomma la questione era risolta e avevano pagato le loro colpe coloro che dovevano. Adenauer nel 1949 spinse perché chiunque venisse reintegrato nei posti di lavoro pubblici che occupava prima, così accade che Simon Kirsch (l’attore si chiama Johannes Krisch), un reduce di Auschwitz, riconosce in una scuola un ex gerarca ora professore violento di bambini. A nessuno pareva importasse nulla, tutti avrebbero voluto dimenticare e andare avanti, riprendersi e rappacificarsi: questo era un concetto descritto anche in Il segreto del suo volto, il film di Petzold dedicato al procuratore Fritz Bauer che volle fortissimamente che il processo di Francoforte avesse luogo. Pure questo film è a lui dedicato.

Sebbene quasi tutti i magistrati dei primi anni ’60 erano stati iscritti al partito nazionalsocialista, e coloro che avevano “lavorato” nei lager (8000?) fossero ancora dappertutto - i nazisti non potevano essersi dissolti nel nulla dopo aver riposto l’uniforme – la pervicacia di un giovane procuratore che collaborava con Fritz Bauer portò a far testimoniare centinaia di sopravvissuti e familiari delle vittime. E’ proprio questo personaggio il protagonista (l’attore è Alexander Fehling, un precedente in Bastardi senza gloria) del film un po’ fiction ma molto dossier, insieme con un giornalista (André Szymanski) che era stato messo a servizio ad Auschwitz quando aveva 17 anni e vide la cattiveria dei kapò e le torture dei militari che, ancora si sosteneva, avevano solamente eseguito ordini, non colpevoli dunque perché avevano solo fatto bene il proprio “lavoro”. Lui e il procuratore andranno a recitare la preghiera ebraica kaddish di fronte al reticolato di Auschwitz, in memoria delle due bambine di Simon, soppresse dagli esperimenti del dottor Mengele. Il punto, per questo giovane procuratore, non era raggiungere una condanna ma far testimoniare i sopravvissuti e i congiunti delle vittime, al cospetto dei responsabili (seconde linee) individuati. Qualcosa di simile volle Mandela, dopo l’apartheid, le confessioni pubbliche per la pacificazione.

L’apprezzabilità del film è dovuta anche al montaggio, le parole di una scena iniziano quando ancora le immagini di quella precedente si stanno concludendo, questo gli dà il ritmo incalzante e l’impronta da inchiesta. E’ “abbellito” anche dalla storia d’amore del giovane avvocato con una ragazza (Friederike Becht, che un ruolo ebbe in The Reader) conosciuta da difensore d’ufficio, rea di un parcheggio vietato. Non solo, si crea una piccola compagnia di “cospiratori” per cui lo spettatore certamente parteggia, un gruppetto che vuole quel processo, di cui fanno parte anche il giovane procuratore e la sua compagna, Simon Kirsch, il giornalista Gnielka, avversati da chi vorrebbe che dopo 17 anni dalla fine della guerra si tacesse, per nascondere le proprie responsabilità da piccoli giustizieri nei lager. Opera prima meritoria alla regia di Giulio Ricciarelli, cinquantenne figlio di una tedesca e di un italiano.




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