venerdì 8 marzo - Phastidio

Dopo la chitarra, Elly ha il piano: più soldi europei

Sull'automotive e non solo, la segretaria del Pd ha una "visione", che l'accomuna ai suoi avversari politici: l'Europa ci dia i soldi, perché noi valiamo.

Leggo sul Sole di domenica 11 febbraio un virgolettato attribuito alla segretaria del Partito democratico, Elly Schlein, sul “caso Stellantis” (in Italia c’è sempre qualche “caso” che non è tale). Che poi sarebbe un tema di politica industriale, nel senso di riuscire a mantenere e sviluppare la base manifatturiera di questo povero paese.

DATECI I SOLDI, ABBIAMO I SAPERI

L’elaborato di Schlein è molto nel suo stile: una torrenziale facondia che alterna buoni sentimenti e stigmatizzazioni, e che alla fine ricorda molto lo zucchero filato: voluminoso ma destinato a sparire al primo assaggio. Che ha detto Schlein sulla filiera dell’auto e non solo, quindi? Questo:

Viviamo una fase complessa di riorganizzazione dell’economia. Non si può procedere senza una visione propria, una programmazione. Vuol dire mettere in campo delle politiche industriali, un piano industriale europeo che continui nel solco del Next Generation Eu e di quei 200 miliardi di investimenti che in Italia sono arrivati grazie alla spinta che abbiamo dato in Europa.
Siamo molto in ritardo per il settore della mobilità, ma abbiamo tutte le potenzialità, la tradizione industriale, i saperi, le capacità e le competenze dei lavoratori del settore. Prendiamoli per mano e cerchiamo di accompagnare in questo cambiamento un futuro migliore per il Paese e per quelle famiglie.

Che, tradotto, dovrebbe suonare all’incirca così: servono soldi, tanti. Meglio, molto meglio, se europei. Perché dopo il “c’è grossa crisi” di Quelo, alias Corrado Guzzanti, ora siamo al “c’è grossa riorganizzazione dell’economia”. Di conseguenza, par di capire, serve farsi dare altri soldi “dall’Europa”, dopo il Next Generation EU che è arrivato grazie alla “spinta” di alcuni lungimiranti statisti italiani. Uno, in particolare.

E qui risuona l’eco di Giuseppe Conte, colui che ha portato in patria questi 200 miliardi, di cui due terzi a debito. Sono certo che Conte non perderà occasione per ricordare a Schlein che, appunto, è stato lui e solo lui a raggiungere questo evento che resterà nel grande libro della storia patria, oltre che in quello del nostro debito pubblico, incluse le strategiche moine fatte ad Angela Merkel al bar durante i vertici europei e che da noi sono state liquidate come dozzinale piacioneria.

Vorrei chiedere alla segretaria del Pd in che modo, a suo giudizio, sarebbe possibile tornare a chiedere “all’Europa” parecchie centinaia di miliardi, dopo il PNRR, con la nobile motivazione di gestire la “complessa fase di riorganizzazione dell’economia”, soprattutto nel nostro paese. Un vero peccato che stiamo parlando di politiche industriali, che tendono a essere ferocemente nazionali, soprattutto nell’auto.

Certo, potreste e potremmo obiettare che si tratta di visione miope, che così facendo l’Europa si condanna a essere comunque il vaso di coccio tra Stati Uniti e Cina, eccetera eccetera. Ma queste considerazioni non cambierebbero di una virgola la situazione sul terreno. I singoli paesi cercano di fare da sé. Di certo, data la cosiddetta “emergenza” italiana (che non lo è, nel senso che lo è ma è partita da molto lontano, visto che abbiamo un monocostruttore automobilistico da sempre), mi pare bizzarro ipotizzare una mutualizzazione del debito europeo per permettere al Belpaese di trovare i soldi per attrarre altri costruttori.

Ma non disperiamo: magari, la prossima eurolegislatura, che sarà a forti tinte sovraniste e quindi “egoistiche”, Schlein e Conte riusciranno a convincere i partner europei a una nuova maxi emissione di debito comune, perché noi abbiamo “le potenzialità, la tradizione industriale, i saperi, le capacità e le competenze dei lavoratori del settore”. Datece li sordi, perché noi valiamo. Appunto. E comunque, “serve visione” e “ascoltare il territorio”.

Una interessante convergenza parallela del ventunesimo secolo tra maggioranza e opposizione pro tempore. Forse anche per quello Schlein si è detta disponibile a lavorare insieme al governo Meloni. C’è aria di famiglia italiana allargata, in queste “visioni”.

ATTRAZIONE FISCALE

Che fare, allora, visto che la strada mutualistica europea appare sbarrata? Usare risorse domestiche per attrarre insediamenti industriali. Ma quelli veri, non i truffatori che accorrono per incassare i soldi delle “reindustrializzazioni” post crisi: attività di cui la nostra storia patria è ricca di eclatanti esempi.

E qui, sempre sul Sole di ieri, leggo un editoriale del professor Fabrizio Onida, oggi emeritus dopo essere stato ordinario di Economia internazionale in Bocconi sino al 2009. Il problema italiano, ricorda Onida, è che siamo poco attrattivi: nel 2022, l’Italia era solo al dodicesimo posto nella Ue nella classifica degli investimenti diretti esteri. Quali strumenti utilizzare, per attrarre? La leva fiscale e parafiscale, ovviamente. In particolare, anche per non avere problemi con la WTO, potremmo tentare

[…] la cosiddetta “fiscalizzazione degli oneri sociali” con cui lo Stato alleggerisce il costo del lavoro per tutte le imprese attive in Italia a parità di salario percepito dai lavoratori. Altrettanto potrebbero servire sgravi mirati sui costi dell’energia, in cui l’Italia è purtroppo svantaggiata rispetto alla Francia e altri paesi europei.

Ecco. A dirla tutta, però, la fiscalizzazione degli oneri sociali servirebbe a imprese e lavoratori italiani, oltre che ad attrarre capitali esteri. Ma è terribilmente costosa, come ben sa il governo Meloni, impegnato a trovare ogni anno una decina di miliardi per aumentare il netto in busta a chi si trova sotto la nota “soglia del benessere” italiano, posta a 35 mila euro lordi annui. Non parliamo poi dell’esigenza di ridurre i costi dell’energia: in Germania sono vieppiù angosciati paventando imminenti deindustrializzazioni ma chi paga di più l’energia, in Europa, sono le aziende italiane:

E quindi, come trovare tutti questi soldi? Secondo il professor Onida, al solito modo:

Perché tali costose misure non aggravino il disavanzo e il debito pubblico italiano, proprio in questi mesi in cui Commissione e Parlamento europei stanno disegnando le nuove regole del Patto di Stabilità e Crescita, occorrerebbe naturalmente pensare a coperture sotto forma di aumenti selettivi di imposte indirette sui consumi e/o su rendite patrimoniali.

Ecco (di nuovo). Ma parlare di aumenti “selettivi” sulle imposte indirette quando siamo il paese primatista europeo di evasione Iva? E sulle “rendite” patrimoniali, mobiliari e immobiliari, la tassazione c’è già. Certo, ma si può sempre aumentare. No?

Per farvela breve, nei limiti del possibile: vi ho presentato due posizioni. Una di una leader politica che, fedele al proprio personaggio, afferra la chitarra e canta “datece li sordi, perché noi valiamo”; l’altra, “tecnica”, di un importante accademico che, dopo aver constatato quanto male siamo messi, non riesce a proporre nulla di differente da un aumento di tassazione. Ma forse si tratta di redistribuzione da consumi e patrimonio a lavoro. Ma sempre con le solite piaghe italiane: evasione e pressione fiscale già esistente.

Se solo avessimo usato le risorse fiscali di questo paese, quando c’erano, per fare politica industriale vera e non dare mance a chiunque, ora avremmo forse un paese diverso. E, come dicono a Milano, se avessi le ruote sarei un tram. Chissà perché un tram, poi. Forse perché è perfetto per la transizione ecologica?

Foto Fillea Cgil/Flickr




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