Grazie! Ti rispondo con un’altra lettera di una ragazza Veronica Andrea Sauchelli, fotografa di 25 anni
"Un giovane uomo si suicida perché non ha il lavoro che desidera e
scoppia l’urto di accuse. Ovviamente la maggior parte sono commenti alla
"governo ladro", "sistema bastardo" e "povera vittima". Non voglio
tentare neanche per un secondo di commentare il gesto di chi se n’è
andato perché non ne ho né il diritto né l’interesse.
Quello che mi
preme dire, invece, è che io non mi sento follemente arrabbiata solo con
un "sistema" generico, impersonale, intangibile; io mi sento arrabbiata
col sistema reale, e mi dispiace sottolinearlo, ma del sistema reale
fanno parte anche tutti quei miei coetanei che adesso puntano il dito
verso un responsabile invisibile. Siamo tutti responsabili. Tutti: dal
primo all’ultimo, e non solo chi arriva nei palazzoni con le auto blu.
Partecipo più o meno attivamente alla vita di questo Paese da quando
avevo 15 anni, ora ne ho venticinque e sono già stanca, amareggiata e
stufa. Non dalla classe politica, ma dalla mia generazione. Sì, lo sono
anche dalla prima categoria, però da quella te l’aspetti, dalla seconda
no. Ero rappresentante del mio liceo e organizzavo conferenze a cui non
veniva nessuno perché "meglio i tornei di calcetto e pallavolo". Alle
manifestazioni talvolta un po’ di gente c’era, ma il più delle volte per
saltare scuola o per vivere un pizzico di quell’atmosfera sessantottina
di cui abbiamo sentito solo parlare. Poi sono cresciuta ed ho iniziato
ad andare all’università e ad altri incontri pubblici: sulla questione
dell’acqua, conflitti vari, giornalismo, crisi giovanile, complesso di
Telemaco, Costituzione italiana… indifferente l’argomento, c’era sempre
una sola costante: ero l’unica (o quasi) a non avere la testa grigia. I
miei coetanei non ci sono mai, li si vede in massa solo quando c’è da
fare aperitivo.
Al festival di Internazionale ho assistito ad un
incontro sul (non) futuro giovanile in cui l’attempato relatore si è
consumato in un sentitissimo mea culpa perché loro, i nostri nonni, ce
l’hanno rubato, il divenire. Beh, questa frase fatta - che ormai si
sente troppo spesso - sortisce come unico effetto quello di assecondare
il nostro volerci sentire vittime. Magari in parte lo siamo, ma non
possiamo usare questo come scusa per redimerci dalla responsabilità di
costruire quello che vogliamo. Non abbiamo una coscienza sociale, questo
è il vero problema. Ognuno è a testa china sulla propria strada, in
mezzo a smartphone, ambizioni, menefreghismo e bicchieri di vino. È una
grossa generalizzazione, sicuramente, ma che siamo imbottiti di un
individualismo spesso quanto le nostre speranze è innegabile.
Spesso
ho fatto la pendolare coi miei colleghi di studio, ed è stato sempre un
penoso lungo viaggio fatto scivolando sulla superficie delle cose. Uno
solo l’argomento di conversazione, puntuale: l’esame e la mole di
studio. Non riesce a preoccuparsi d’altro se non dei suoi problemucci
quotidiani, questa nuova maggioranza; compresa la più istruita,
"l’élite". Gente che anche quando si lamenta perché il libro scritto (e
inflitto) dal professore non è nemmeno in italiano corretto e a
studiarlo ci si sente presi per il sedere, sorride compiacente
all’autore perché c’è un voto da portare a casa. Come si può pretendere
da un insieme di persone incapace d’unirsi anche solo per ottenere un
libro dignitoso da studiare, che sappia creare una forza sociale in
grado di far valere i propri diritti.
Una persona molto cara a me
(laureata) aveva trovato un posto in cui veniva pagata cinque euro l’ora
(in nero) come responsabile di sala, e se avesse voluto bere o mangiare
qualsiasi cosa avrebbe dovuto pagarlo a prezzo intero. «Non andateci»,
ho detto ad alcuni amici «non dobbiamo sostenere il nostro
sfruttamento», «mi dispiace, ma la birra lì è buona!», mi hanno
risposto. Stesso tipo di risposta quando ho riportato il medesimo
suggerimento per un’altra situazione analoga di sfruttamento vaucheriano
giovanile, «ma non sta sfruttando mica me!», già. Non oggi, non lì.
Quindi la riflessione prima ancora che ai poteri forti spetta a noi.
Noi abbiamo la forza fisica, mentale e anagrafica per proporre e reggere
uno scontro tangibile con questa realtà. La società non si fa da sola, e
in questo momento noi giovani stiamo lasciando che subisca se stessa.
Noi abbiamo il diritto e il dovere di partecipare, di creare un tessuto,
al posto di un pettine di fili paralleli, destinati a non incontrarsi
mai. Siamo noi che ci stiamo annegando a vicenda in un assordante
silenzio di contenuti. Siamo noi che dobbiamo (ri)costruire per primi
un ambiente vitale, vivace, fatto di braccia salde e responsabili. Chi
altri sennò? La cosa pubblica non si fa da sé. Michele s’è ammazzato da
solo eppure l’abbiamo ammazzato un po’ tutti, col disinteresse, la
critica altero-diretta e l’incapacità di essere un gruppo. Sinergia,
questa dovrebbe essere la parola d’ordine per arrivare tutti da qualche
parte. Sempre che ci interessi."
(Veronica Andrea Sauchelli è una fotografa di 25 anni di Udine. Ha inviato questa lettera a L’Espresso che l’ha pubblicata con il suo consenso)
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