(---.---.---.235) 23 marzo 2011 13:45

Castelfranci sotto i colpi dei famelici amministratori del dopo terremoto

Si premette che quanto segue non è assolutamente rivolto alla persona in quanto tale bensì ad un ruolo politico che per ciò stesso è di natura pubblica e soggetto quindi alle opinioni del cittadino che ha liberamente investito quella persona di quel ruolo. Sono opinioni e vanno rispettate senza prevaricare nelle risposte ma ragionando con riflessioni legittime, fermo restando che siano a parlare i “fatti accaduti” con documenti ineccepibili in sintonia con la verità, non arzigogolando nei sofismi e nei cavilli pretestuosi.
E’ il metodo storico: né più né meno. Proseguiamo dicendo che il centro antico del borgo non è più esistente per volontà scellerata della maggioranza eletta nel giugno 1980. La famigerata questione dibattuta nel consiglio comunale del settembre 1981 riguardò una fantomatica via di collegamento per la quale occorreva eliminare il vecchio abitato lungo la rupe del fiume Calore: in particolare i vicoli Pendino e Cancello declinanti verso il piano dell’Ortora.
Per altre antiche abitazioni in via Calabrese: pretesti e ricatti.
Ogni pretesto, ogni cavillo fu tentato onde poter demolire le antiche abitazioni del centro storico: fino al ricatto. Per testimonianza diretta cito la risposta classica (del sindaco, dell’assessore o del tecnico improvvisato e ignorante sul tema del recupero storico e artistico): non concederemo il contributo al ripristino di vecchie abitazioni destinate poi a crollare. La seduta principiò alle ore sedici in punto: vi fu il rapporto di un architetto repentinamente impugnato da alcuni cittadini ivi presenti. La minoranza subito espresse opinione contraria onde evitare lo scempio della memoria storica .

Una documentazione esaustiva della disputa appena trattata è contenuta nel libro di Alessandro Di Napoli, Castelfranci tre anni dopo, Tipografia Irpina, Lioni (Av) 1984, pp. 111-113. L’autore giustifica le posizioni della maggioranza: licet, quod cuique libet, loquatur (Cic.).

Il dibattito in quella grigia aula delle adunanze fu quanto mai concitato e a niente valsero le arringhe dei minoritari: il destino del vecchio paese era di già segnato. Si riproduce un significativo brano del discorso che enunciò il consigliere di minoranza Angelo Bocchino.

«E’ inconcepibile distruggere...il centro antico per costruire strade...inutili... Nel prendere visione…della bozza...m’è venuta in mente la Sicilia. Ritengo [quanto segue]: la maggioranza s’é affidata a tecnici che intendono risolvere il problema solo da un punto di vista progettuale trascurando i motivi storici, sociali e affettivi. Per questo non sono favorevole...». Parole profetiche.

Si confronti l’archivio del Comune di Castelfranci, Registro delle deliberazioni comunali, settembre 1981. V’è in architettura una questione di straordinaria importanza, diremmo “decisiva” per l’uomo: ciò che l’ambiente può causare nei comportamenti sociali (il determinismo dello spazio).
Il concetto non è di comprensione difficile e può spiegarlo un semplice paragone: si pensi il modo di vivere in una grande periferia urbana e quello in un vicolo di un paesino. Si confronti pure Luisa Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis editore, Milano 1997.

Perché si addivenne a quella turpe volontà? perché mai annichilire quelle vestigia di lontana rimembranza? fu solo bruta ignoranza del Bello? il terremoto del novembre 1980 fu evento incontrollabile, seguirono “distruzioni incontrollate”: ovunque si distruggeva senza discernimento di sorta.
Si ricordi l’emergenza progettuale e legalizzata da una legge speciale: la numero 219 del 1981. Si aggiunga la legge n° 187 del 1982 che riduce i poteri delle Soprintendenze a tutela del patrimonio storico e identitario: un capolavoro dietro l’altro. Talvolta si giustifica il Legislatore: licet, quod cuique libet, loquatur (proprio così come diceva Cicerone).
Talaltra si giustifica dicendo: i cittadini vogliono la comodità. Ebbene: e chi la nega? e allora: si costruisca il nuovo ma non si distrugga il vecchio. Dicesi che di artistico v’era ben poco da salvare. Ma la questione è un’altra: è questione d’ignoranza. La nostra tradizione non era solo estetica: v’era un borgo in cui, per l’umano spazio raccolto in una architettura armonica, si corroboravano legami arcaici, sentimenti, vicinanze familiari, conoscenza e solidale colloquio tra generazioni: vi pare poco? In qual maniera alla calamità naturale si congiunge il disastro legalizzato? La legge n° 219 sottrae il 20% dal contributo dei cittadini che intendono ripristinare la vecchia abitazione. Ecco la chiave di volta. Ecco la manna per i famelici amministratori. Si promette, si vagheggia, si lascia il luogo natio. E così come detto il destino del borgo antico è segnato: l’intrigo politico, i reboanti proclami della villa signorile, la furberia del contributo conforme al numero di famiglia, l’utopia del paradiso venturo riducono il paese a immagine e somiglianza di periferia urbana per chi lo rivede e poi ne ricorda l’antica bellezza. Si riconosca comunque l’intuzione del Bello o, per non usare parole ridondanti, un recupero intelligente benché non sia tanto l’intelligenza quanto la conoscenza estetica alla base di certe iniziative benemerite. Si pensi ad esempio Rocca san Felice, Nusco, Torella, Gesualdo, Sant’Angelo, Guardia, Castelvetere, nonché la splendida Dogana aragonese di Flumeri: architetture e bellezze ritrovate. In alcuni borghi della verde Irpinia, vuoi per volontà di popolo vuoi per lungimiranza di sagge autorità culturalmente preparate, sono riportati agli antichi splendori: monumenti, palazzi, castelli, monasteri, conventi, episcopi. Si recupera un gusto estetico concomitante quell’economia turistica che a noi appartiene per natura e costume. «La fortuna d’Italia è inseparabile dalle sorti della Bellezza di cui ella è madre» diceva Gabriele d’Annunzio ne “Il libro ascetico della giovane Italia”. Perché Castelfranci, borgo medioevale come il nome stesso racconta, non può rivendicare la sua millenaria tradizione? perché cotanto scempio? perchè quel disastro nel bosco di Baiano? perché la bruta mania della distruzione barbarica?

«Nell’area del cratere si è recuperato pochissimo degli antichi insediamenti.
Alle distruzioni della natura si aggiunsero quelle “progettuali”: contenute negli strumenti urbanistici e legalizzati dalla legge speciale n° 219 del 1981.
Fu conseguenza della miopia amministrativa generalizzata: ignorando il valore delle preesistenze e nell’enfasi del consumo finanziario si è annientato un patrimonio storico architettonico di grande valore culturale e ambientale. La distruzione avvenuta e la cancellazione di ogni segno della civiltà altirpina penalizzano ancora una volta il rilancio del nostro territorio.
La legge numero 219 ha premiato la distruzione e la ricostruzione ex novo a discapito del recupero e del restauro: si è abbattuto il patrimonio preesistente mediante un incentivo economico legislativo. Cioè: tutti quei cittadini che intendevano recuperare o riparare la prima abitazione erano penalizzati con una decurtazione del 20% sul buono contributo rispetto a quelli che diroccavano e ricostruivano beneficiando di sovvenzioni per il cosiddetto adeguamento al numero familiare, superfici non residenziali e autorimesse.
Una concezione perversa: i proprietari con un incentivo in denaro abbandonavano il centro storico sperando in condizioni di vita migliori nelle ville dei cosiddetti piani di zona. E così centri abitati trasferiti in lontananza con aumento abnorme di luoghi urbani desolanti. La legge n° 187 del 1982, modificando la n° 219, ridusse ulteriormente i poteri delle Soprintendenze impegnate nella salvaguardia dei beni architettonici e non si potè esprimere vincoli sul patrimonio minore o privato. In breve: ragioni di ordine politico, amministrativo e culturale furono alla base di legislazioni distruttive [e di saccheggio] per un ventipercento in più. Al termine del processo ci ritroviamo una moltiplicazione dei luoghi abitativi, sono diroccati i centri storici e costruiti i piani di zona. Cioè: costose periferie urbane con l’inevitabile degrado sociale, tornaconti e tangenti. Si pensi: Morra, Lioni, Bisaccia, Castelfranci. Un senso di “non finito” caratterizza quello che rimane del vecchio e del nuovo. Si pensi lo spreco del pubblico denaro in Laviano. Ma si registrano casi di recupero intelligente: Guardia, Rocca, Gesualdo, Sant’Angelo, Nusco, Sant’Andrea di Conza. Tranne poche eccezioni, ad un quarto di secolo dal terremoto, in tutti gli altri Comuni non risulta definito né quanto rimane del centro antico né quanto si è cominciato ex novo. Nei luoghi storici rimane il vuoto lasciato dagli edifici trasferiti: sono presenti ruderi e sterpaglie. Si aggiunge: il recupero di alcuni borghi per fine turistico tra i quali anche Castelvetere dimostra che il medesimo costa meno di una nuova costruzione» .

L’ultimo capolavoro del Legislatore si chiamò con seguente terminologia: ristrutturazione urbanistica. Cioè: coloro i quali intendevano rimanere nel centro storico ottennero il diritto di farlo pure ampliando superfici edilizie accanto o al di sopra delle proprie particelle. Risultato: in teoria il recupero, in pratica nuova edilizia tra le vecchie tipologie. Si immagini l’obbrobrio. O meglio: lo si osservi.
La caratteristica di una comunità è il forte legame al piccolo ambiente in cui si vive, al suo tempo ciclico, alle stagioni, alle costumanze: è cosmos (ordine) che riunisce gli intenti, accoglie l’armonia, espelle, rifiuta l’emarginazione del singolo. Non v’è posto per la solitudine, l’individualismo apolide, per l’angoscia dello spazio universale, ampliato, smisurato, desolato. La comunità è appartenenza, è come un cerchio sacro dove si è protetti da chi si conosce e si riconosce, dove tutto è sempre identico a se stesso e diverso da ciò che esiste altrove. Ogni comunità possiede una cultura, un patrimonio spirituale proveniente dagli antenati, un luogo determinato. Permane nella distinzione con altre comunità egualmente sacre perché diverse nelle abitudini e nello “spazio”.
Ma quando uno straordinario evento sopraggiunge devastando il cerchio sacro si è come trasportati nel caos della confusione, dell’indistinto, dell’irriconoscibile, dell’inconoscibile. Così è la periferia urbana: non si conosce e non si riconosce l’identità, la storia di una vita, quella di una cultura amica, di una civiltà comune e condivisa. E dove sarà più il genius loci? e lo spazio a misura d’uomo? e la dimora dove si nacque? e il vicolo dell’infanzia? e la vita sociale? e gli affetti più cari? e quel che i latini dicevano "comunitas"?
Questo accadde negli infausti anni ottanta: si annullò il topos (spazio) chiuso e limitato per dare esistenza al topos ampliato, orbo di limiti e confini, privo di “spazio umano”. Si cancellò il passato, l’antico, l’appartenenza, la memoria. Nella distruzione del centro storico l’unico metro di giudizio fu il calcolo: la misura, la quantità, il potere, il denaro. E quale evento è propizio come quello straordinario per consentire la corruttela politica, il losco affare del predone, l’opera inutile, il numero falsificato dei Comuni colpiti? di quì il ridurre al nulla separando ciò che per essenza è unito: uomo e ambiente, uomo e comunità, uomo e tradizione, uomo e spazio, uomo e bellezza, uomo e storia, uomo e cultura. Nel concetto summenzionato rientrano la volontà famelica, l’incapacità, l’ignoranza, di chi è deputato al governo della cosa pubblica: non può essere altrimenti. Si richiama un concetto: v’è in architettura una questione di straordinaria importanza, diremmo decisiva per l’uomo: ciò che l’ambiente può causare nei comportamenti sociali (il determinismo dello spazio). Il concetto non è di comprensione difficile e può spiegarlo un semplice paragone: si pensi il modo di vivere in una grande periferia urbana e quello in un vicolo di un paesino. E quindi: se degrado urbano allora decadenza sociale. L’imbarbarimento antropologico fu ulteriormente aggravato da un’altra “geniale” idea della classe politica democristiana: il covulso, maldestro e irrazionale progetto dell’industria nelle zone tortuose di montagna.
Come si potè immaginare una cosa del genere all’interno di zone o territori impervi dove a stento già i primi soccorsi nella fase dell’emergenza riuscirono a varcare? come mai si ignorava che l’economia del Meridione fosse di prevalenza agricola, turistica e artigianale?

Tutto appare come un paradosso ma tant’è: spreco, abiezione, ruberia, malaffare, abuso, falso ideologico in atto pubblico. Cosa c’è di più obbrobrioso come lo speculare sulle disgrazie umane? ciò nonostante i politici locali e nazionali furono di ben altro avviso. Il Mezzogiorno d’Italia con l’Irpinia in particolare fu il luogo del più cinico potere clientelare con rapporti di forza tale da costituire uno dei più vasti apparati di consensi tra le masse popolari riducendone la libertà di scelta ricattando le coscienze di persone indigenti e per ciò stesso deboli e indifese. E si trattò di un potere politico e camorristico al tempo stesso: forte, tenace, invincibile, indistruttibile che uscì indenne da una lunga serie di processi e inchieste giudiziarie. Nel 1988 Montanelli dalle righe del quotidiano “Il Giornale” tratta la gestione illecita del pubblico denaro assegnato alla ricostruzione in Irpinia da parte di alcuni importanti esponenti politici di quel tempo: ovviamente democristiani per la maggior parte. E ancora Martini scrive su “Panorama” un articolo sul medesimo argomento. Per indagare su codesti illeciti fu istituita una commissione parlamentare presieduta dal democristiano Oscar Luigi Scalfaro: futuro Presidente della Repubblica.
E cosa accadde? ciò che era prevedibile.
Ricordando che fra le persone coinvolte figuravano i nomi di Ciriaco De Mita, Cirino Pomicino, Enzo Scotti, Antonio Gava, Francesco de Lorenzo e il commissario straordinario Giuseppe Zamberletti: l’inchiesta ebbe fine con la prescrizione dei capi d’accusa e la totale assoluzione degli altri imputati.

Il presente documento esprime altresì la rimembranza e l’avvertita nostalgia per la distruzione del centro antico ancor più bello nel ricodo. Ma quali furono le cause che negli anni ottanta deformarono le sembianze del vecchio paese? non lo sappiamo né vogliamo saperlo. Quando il barbaro disastro è compiuto a che serve la conoscenza delle cause? e se chi non è oblivioso chiede, è già pronto il sofisma del politicante: l’astuta abilità di gabbare il povero cittadino che di questioni amministrative ben poco sa. Ma i sofismi, cioè gli argomenti fallaci, sono parole: la bruttezza del paese invece è una cosa che di leggieri si vede. Non esitiamo a definirlo “brutto” giacché privo di ogni elemento estetico in armonia con la geografia irpina che tanto ricorda quella umbra e toscana: non esitiamo a definirlo “brutto” perché rimesso nelle maldestre competenze di progettisti ignoranti e costruttori improvvisati. Quando si studia l’architettura dei borghi medioevali si entra in questioni a tal punto complesse che non può decidere un sindaco o un ingegnere qualunque. Lo diciamo per ubbia? no. In questi ripetuti accenni al patrimonio identitario, fuori dal proposito di una semplice informazione storica e del comune sentire, non si consideri nessuna polemica denigratoria verso istituzioni in generale o persone in particolare. Ma cosa vuol dire “patrimonio identitario”? è tutto ciò che l’uomo crea. E’ tutto ciò che la persona apprende con i sensi e l’intelletto da quando principia la sua vita. E’ tutto ciò che amorevolmente la circonda: famiglia, abitudini, casa, borgo, città. E’ tutto ciò in cui si ritrova, si riconosce, “si identifica”. E’ tutto ciò che nel corso del tempo la rende quella che è da ogni punto di vista: affettivo, psicologico, culturale. L’uomo non è creatura statica: pensa, progredisce, inventa l’irrinunciabile, quanto senza di cui muore nello spirito. Allorché si distrugge un’opera d’arte si violenta il bello, allorché si distrugge la tradizione si distrugge la persona. E la politica nel significato nobile del termine si allontana dal suo campo, non esplica la sua autentica funzione e disattende ciò per cui essa è portatrice di progresso umano. La totale assenza di fondamento culturale, la poca influenza che il sapere esercita sulla politica consentono alle questioni pratiche e sociali di essere appannaggio di un ceto di bottegai giocoforza incapaci di una visione più in là delle circostanze immediate. E così “la politica...diventa una mediocre faccenda composta di piccole cose quotidiane, più vicina...alla pratica minuta degli affari di un mercante che non alla complessità vasta e concitata della storia. E così...ci sono i politicanti della giornata spicciola, ignoranti, grossolani e prosaici, miserabili e inutili, totalmente privi di autorità morale e civile e solo intenti a ricamare la piccola bugiola della loro vita”. Par che questa citazione di Prezzolini dia un concetto chiaro e preciso di quanto via via si è detto nel documento: accanto all’ignudo racconto una sua comprensione critica che è il sogno dell’arte (la bellezza) sotto i colpi del malaffare. Sulle rovine un unico segno è riposto: il “niente” che dichiara la fine di una tradizione, di una civiltà, di una comunità. Se ciò non fosse, che significato conterrebbe il semplice narrare?
Ogni accadimento, nel bene e nel male che produce, porta con sé una ragione: e quì, nelle cause, si ritrova o la gratitudine o la protesta, o l’onore o la disonestà, o buon governo o il contrario. E perché abbiamo enunciato le parole “onore” e “disonestà”? perché la cultura priva di morale: talvolta è perniciosa ancor più dell’ignoranza. Perché la funzione della cultura, in tutte le questioni politiche e pratiche, consiste anche nel corroborare la coscienza umana dinanzi agli impulsi miserrimi del lenocinio e al contagio quasi inevitabile della corruttela. Ecco perché è possibile nonché doveroso determinare qualsiasi movimento di opinione che sovverta l’arroganza di chi ancora spadroneggia. Per nostalgia? no: talvolta non è saggio restaurare, ma lo è sceverare, discernere il passato, buono e cattivo, bello e brutto, traendone tutti gli insegnamenti possibili. E mai obliando eventi e persone disoneste e miserabili. Per maggiori conoscenze e approfondmenti si legga il libro di Ippolito Negri, La grande abbuffata e le mani rapaci sull’Irpinia del dopo terremoto, Milano 1996.


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