venerdì 17 febbraio 2017 - Phastidio

Welfare italiano e spesa sociale, anatomia di una catastrofe

E' stato presentato il Quarto Rapporto su “Il Bilancio del Sistema Previdenziale Italiano. Andamenti finanziari e demografici delle pensioni e dell’assistenza per l’anno 2015“, curato dal centro studi Itinerari Previdenziali. La sintesi e le sconsolanti conclusioni si trovano in un commento di Alberto Brambilla (che del centro studi è presidente) sul Corriere.

I numeri paiono giungere ad una conclusione completamente differente dalla vulgata che ci viene ripetuta da anni, spesso propedeutica ad invocare “patrimoniali a botta secca” ed altre amenità. La spesa assistenziale italiana non è quantitativamente limitata ma è di pessima qualità, e con fonti di copertura che ormai non tengono più, complice la crisi che ha rimpicciolito il denominatore di ogni quoziente ma soprattutto il passo di non-crescita dell’economia italiana, già a livello di potenziale, che si confrontano con il passo inerziale ed incomprimibile della spesa assistenziale.

Osserva Brambilla:

«Nel 2015 la spesa totale per pensioni, sanità, politiche attive e passive del lavoro, assistenza sociale è stata pari a 447,3 miliardi pari al 54,13% dell’intera spesa pubblica, interessi sul debito compresi. In rapporto al PIL, cioè a tutta la ricchezza prodotta nel Paese, la spesa sociale pesa per il 27,34%»

Se a questo dato aggiungiamo la spesa sociale per la casa, il finanziamento delle politiche regionali del lavoro ed i costi di funzionamento degli enti gestori, arriviamo a circa il 30% del Pil che viene destinato a spesa assistenziale. Questa incidenza pone l’Italia al quarto posto europeo dopo Danimarca, Francia e Finlandia e davanti alla Svezia, secondo dati Ocse del 2014, che indicano la spesa sociale al 55,8% della spesa statale complessiva. Sul piano quantitativo, come detto, la spesa assistenziale (che è finanziata dalla fiscalità generale) è stata nel 2015 pari a 103 miliardi di euro, il 60% di quella pensionistica, che è coperta (almeno in parte) da contribuzione. Citiamo ancora Brambilla ed i risultati del rapporto:

«Le pensioni assistite parzialmente o totalmente sono oltre 8,3 milioni su un totale di 16,2 milioni (il 51,34%) e nel 2015 su 1.120.000 nuove prestazioni liquidate quelle assistenziali sono addirittura il 51%»

Ribadiamo, questi sono numeri che insistono sulla fiscalità generale, ed il rapporto scopre che l’Irpef è ormai esausta, come fonte di finanziamento della spesa assistenziale:

«[…] su 60,5 milioni di italiani, quelli che fanno la dichiarazione dei redditi sono 40,7 milioni ma quelli che dichiarano almeno 1 euro sono solo 30,7 milioni quindi la metà degli italiani non ha redditi; il 46% degli italiani paga il 5,1% dell’Irpef totale mentre lo 0,8% versa il 4,71%; il 4,13% paga circa il 34% dell’Irpef»

Ora, si può certamente leggere questo dato come figlio dell’evasione fiscale, e vagheggiare che “se tutti pagassero le tasse, non ci sarebbero problemi”, eccetera eccetera. La realtà non è così rassicurante: la realtà è che non tutti quelli che non pagano tasse sono evasori fiscali, ovviamente. Allo stesso modo in cui esiste una classe medio-alta (in termini relativi), fatta di dipendenti, che sta venendo massacrata di prelievo fiscale e parafiscale a cui non può sottrarsi, per altrettanto ovvi motivi.

Altra scoperta, ancora più spaventosa: per finanziare il nostro welfare servono tutti i contributi e le imposte dirette, cosa che pone sulle spalle delle imposte indirette il funzionamento di tutto il resto del paese. Il che è pura follia anche solo a pensarlo, evidentemente. La conclusione è deprimente: l’Italia è la patria del welfare fallito, cioè di misure assistenziali stratificatesi nei decenni, del tutto inidonee al contrasto alla povertà, relativa ed assoluta, ma ormai dal costo insostenibile, anche in rapporto alla ridotta crescita del paese, che a sua volta si alimenta del processo di invecchiamento della popolazione e della sostanziale decrescita della produttività. Ancora una volta, l’Italia appare come un paese che sta divorando se stesso, ed incapace di riformarsi.

Da questa situazione, e dal crescente stress finanziario causato dalla spesa assistenziale in un paese di anziani e di descolarizzati, derivano le fughe in avanti di chi da lustri insiste a dire che “se separassimo la spesa previdenziale da quella assistenziale, il sistema sarebbe in equilibrio” ma nulla dice sul ridisegno dell’assistenza, che della prima affermazione è la naturale conseguenza. Anche la “ristrutturazione” del welfare, con l’introduzione di reddito minimo o imposta negativa sul reddito richiede evidentemente ampi interventi sullo status quo, cioè una “contro-redistribuzione”, con vincenti e perdenti. Invece, tutto quello che ascoltiamo sono le solite canzoncine su “l’Italia è l’unica in Europa a non avere reddito universale di base”, o come vogliamo chiamarlo.

Ancora una volta, come sempre, del problema vengono illustrate solo le magiche soluzioni e non i costi (spesso pesantissimi) della transizione per passare da uno stato del mondo all’altro. Soluzioni semplici a problemi drammaticamente complessi. La stratificazione di lustri di interventi assistenziali disorganici ha prodotto la catastrofe che abbiamo sotto gli occhi. Ma tanto noi risolveremo tutto uscendo dall’euro, giusto? Perché in quel modo inonderemo il mondo di Made in Italy mentre sull’interno potremo monetizzare deficit e debito, et voilà la felicità.

La chiusura del commento di Brambilla indica quello che è accaduto sinora: una grande redistribuzione:

«[…] il nostro welfare è una enorme redistribuzione tra categorie (versus agricoli, ffss, poste, fondi speciali, altre categorie) tra regioni, tra soggetti delle medesime categorie: dipendenti, autonomi ecc. Ma soprattutto tra soggetti che non hanno sufficienti versamenti e quelli con un buon versamento contributivo e fiscale. Il tutto spesso a debito e a carico di chi verrà dopo: i giovani cittadini. Quanto potrà reggere questa situazione con alta spesa corrente e pochi investimenti? E al prossimo rialzo dei tassi?»

Il problema non è il rialzo dei tassi in sé, visto che il medesimo dovrebbe rappresentare, in contesti sani, l’indicatore principe della ripresa economica. Quando il rialzo dei tassi è invece frutto di rischio di credito, cioè di rischio-paese, arrivano i guai. E questa è la condizione italiana di questi anni, ma non perché “siamo dentro ad una moneta che non possiamo permetterci”, quanto perché siamo arrivati all’appuntamento col nostro destino, dopo decenni di dissipazione ed irrazionalità della spesa pubblica.

Prevarranno naturalmente le scorciatoie, ma solo a livello di affabulazione. Perché ognuna di queste scorciatoie, ed il tempo trascorso a cullarsi nella loro illusione, è un nodo scorsoio attorno al collo di un paese che è stato dannato dalla sua patologica propensione all’autoinganno, dall’incapacità di prevedere e pianificare il futuro e dall’attrazione fatale (e letale) per i proiettili d’argento. L’ultimo dei quali è per la nostra tempia.

 

foto: petitsvieuxdepaname




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