martedì 1 settembre 2020 - Phastidio

Welfare all’italiana: l’assegno cabriolet

Le grandi riforme del welfare italiano: "pronto l'assegno, mancano i soldi". Dalle proteste al protesto è un attimo
 

Oggi la mia attenzione si è posata sul titolo di un articolo della brava Valentina Conte su Repubblica. Perché mi pare sintetizzi bene la situazione italiana, con la sua crescente divaricazione tra aspirazioni e realtà anche in questo momento di frastornamento collettivo, in cui molti si sono convinti che i vincoli di bilancio e di realtà siano caduti vittime del Covid.

Il titolo è “Pronto l’assegno unico per le famiglie. Mancano risorse per sette miliardi. Che è una forma suprema di dadaismo, o meglio della discrasia tra questo welfare scandinavo che la politica, di governo e di opposizione, sta spingendo forsennatamente, e le risorse disponibili. Siamo pronti col piano, ma manca la sostanza. Sostanza, da “sub stare“, stare sotto. Come le fondamenta, giusto?

E infatti mancano le fondamenta: i dindi, gli schei, i conquibus, le palancheli sordi. Per un motivo molto preciso, che è del tutto anteriore alla pandemia. Quando si fanno “riforme”, o anche “razionalizzazioni”, o “semplificazioni”, cioè quando si tende ad esempio a sfoltire le erogazioni di welfare accorpandole in unico strumento, si crea inevitabilmente un effetto di redistribuzione tra i beneficiari. Nel senso che alcuni prenderanno meno ed altri di più.

Poche cose terrorizzano la politica come la soppressione di “diritti acquisiti”, in senso assai lato, come sono ad esempio i trasferimenti di welfare. Già i politici sudano freddo, visualizzando interviste televisive di percettori di provvidenze danneggiati dalla “semplificazione”, che ululano paonazzi dipingendo scenari dickensiani, prontamente rilanciati dall’opposizione. Una vita molto stressante, quella del politico di maggioranza, dal governo centrale al condominio.

Si noti che questa dinamica da minimo comune denominatore, che porta fatalmente alla paralisi, vale anche per le “riforme” fiscali. Ad esempio, ipotizziamo (per assurdo) di fare la flat tax, quella vera. Per ridurre le aliquote serve eliminare le tax expenditures. Voi pensate davvero che i mutuatari prima casa accetterebbero una cosa del genere, e con loro i costruttori? Ovviamente no. Ma questo esempio vale anche per altri contesti.

Ricordate la “riforma del catasto” a cui puntava Matteo Renzi? Ricordate perché è stata ritirata? Ovviamente, perché ci sarebbero stati vincitori e vinti. Alcuni avrebbero pagato meno, altri di più. Se “non uno solo dovrà pagare di più”, ecco aprirsi una simpatica voragine di gettito, immagine speculare dell’esplosione di spesa nei casi in cui “nessuno dovrà ricevere di meno”. Metafisico, non trovate?

Ecco allora che la politica, da sempre mortale nemica dei trade-off, si è inventata una peculiare “clausola di salvaguardia”: nessuno dovrà andare a peggiorare la propria condizione, post riforma. Fosse così facile. Perché, vedete, se vale questo principio, il risultato finale sarà fatalmente una esplosione di oneri. E tutto si blocca, sino alla prossima promessa. “Nessuno sarà penalizzato”.

Sull’assegno unico per i figli sta accadendo esattamente questo. Tale assegno dovrebbe sostituire otto tra bonus e detrazioni, e ne avrà diritto chiunque abbia figli, dal settimo mese di gravidanza e (decrescente) sino al ventunesimo compleanno. Perché 21 anni e non 18? Non saprei, forse ci sta dentro una laurea triennale in corso, boh.

L’assegno è universale perché prescinde da lavoro dipendente ed autonomo, pur essendo legato al parametro ISEE. Ha delle scale di equivalenza, perché prevede maggiorazioni per figli successivi al primo, oltre che per disabilità. Insomma, ha un suo perché. Ma se nessuno deve stare peggio, costa un botto. Partiamo da quella che il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, definisce “debonusizzazione”, cioè la cancellazione dei bonus per produrre coperture per il nuovo assegno unico:

Ecco che un riordino all’interno del pianeta famiglia porta a circa 15 miliardi. L’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) stima in 22 miliardi almeno la spesa per l’assegno unico. Rimangono fuori due voci però, nota l’Upb: il peso della clausola di salvaguardia (nessuno deve prendere meno di prima: si sfiorano i 2 miliardi) e la cancellazione della quota di assegni familiari pagata dai datori di lavoro (sarebbe un taglio del cuneo fiscale, lato imprese, da 1,9 miliardi). Alla fine potrebbero servire altri 4 miliardi oltre i 7 miliardi (differenza tra 22 e 15): totale 11 miliardi. Una cifra impegnativa.

Impegnativa senza dubbio. Come finirà? Se dovesse finire come sempre finora, è facilmente prevedibile: decurtazione del nuovo assegno unico, abbattimento della scala di equivalenza per numero dei figli (come per le famiglie numerose con reddito di cittadinanza), introduzione di franchigie, riduzione della fascia di età beneficiata, definizione di “ricchi” a partire da ventimila lordi annui, e così via.

Risultato? “Ma questi sono maledetti spiccioli, non stimoleremo mai la natalità così, vergogna! Votate per noi, e daremo mille euro al mese per ogni figlio sino all’età del suo prepensionamento, e pagheranno gli olandesi, che ci fregano fantastilioni dal 1200!”, berceranno i sovranisti dio-patria-famiglia-debito.

“Pronto l’assegno, mancano i soldi”. Mi pare la definizione da libro di testo di assegno scoperto, o cabriolet, come dicevano i bancari (e non solo loro), che di solito porta al protesto. Oppure potrebbe trattarsi di altro prodotto tipico italiano: l’assegno post-datato (a dopo le elezioni). Formalmente vietato ma lo sapete: alle tradizioni ci si affeziona.

Vuoi un welfare scandinavo pur essendo un paese col Pil pro capite in declino pressoché irreversibile, una desertificazione produttiva, una scuola in disarmo, un sommerso da terzo mondo e con una demografia devastata? Immagina, puoi.

Foto di Bruno /Germany da Pixabay




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